Non stigmatizziamo le donne che abortiscono

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Di Maria Paola Pizzonia

Siamo nel 2022 e purtroppo bisogna ancora ripetere di non stigmatizzare le donne che abortiscono. Le parole di Federica di Martino della piattaforma “IVG, ho abortito e sto benissimo” sulla vicenda.

Tutto è nato dal commento di Barbara Alberti, in merito di aborto sono dichiarazioni molto forti. Sul giornale, in un articolo, lo definisce come:

È un lutto segreto, la madre che nega sé stessa, dal quale non si guarisce.

Barbara Alberti

Inveendo poi, non senza un certo moralismo:

E invece circola la favola cattiva che lo descrive come un semplice mezzo di contraccezione

Barbara Alberti

Mentre probabilmente, se una donna abortisce “come contraccezione” ciò avviene perché non è educata alla contraccezione stessa. Nel peggiore dei casi, invece, non ha fissa dimora o non parla bene italiano. Quindi, sebbene sappia la differenza tra abortire e contraccezione, non sa come accedere a queste tutele.

Dice che “Le donne non vogliono mai abortire” ma le donne abortiscono anche volontariamente!

Libri sull'aborto

Si continua poi in un viaggio introspettivo nella psiche della “donna”. Donna come idealtipo sociale, elemento simbolico e raccoglitore di tutte le donne (anche quelle che, forse, non la pensano così). Continua infatti sostenendo che le donne non vogliano mai abortire, ma si assumono questo “delitto” per non commetterne un altro: ovvero fare un figlio che non si vuole.

Come vedremo dalle risposte di Federica di Martino, è importante ribadire la necessità di riconoscere l’aborto come un’esperienza personale e soggettiva. Quindi, in quanto tale, essa è suscettibile di diverse sfumature emotive. Per questo motivo è impensabile accettare una narrazione sola, unica e univoca, della cosa. Come anche, espressa non senza criticità dalla stessa, un’altra narrazione che vedrebbe come:

(…) la libertà di aborto spingerebbe le donne all’imprudenza, tante ragazze si darebbero al sesso più spensierato, e se restano incinte che importa, tanto c’è l’aborto. Niente di grave, come cavarsi un dente. 

Barbara Alberti

Ovviamente l’aborto è un’esperienza provante per la donna, fisicamente e psicologicamente. Tuttavia, questo non cambia un dato di fatto che si basa su altri parametri: che sia facile o difficile, l’aborto è un diritto. Sta solo alla donna capire se vuole esercitarlo e nessuno può giudicarla.

Una pericolosissima narrazione e la presunta modifica dell’articolo 1 del Codice Civile

Il nuovo governo Meloni ha sostenuto di voler metter mano sull’Articolo 1 del Codice Civile. Ma cosa c’entra questo? Dando la “capacità giuridica” al feto lo si renderebbe di fatto titolare di diritti e doveri. Questo, come è facile immaginare, renderebbe l’aborto molto più difficile. Ci troviamo in tempi di revisionismo storico sul fronte dei diritti, tempi nei quali il populismo della destra rischia di mettere in pericolo libertà fondamentali frutto di generazioni di lotta sociale. Proprio per questo non possiamo tollerare una retorica stigmatizzante e colpevole verso chi abortisce.

Viviamo in una società in cui il diritto di aborto è continuamente centro di discussione. Non è un problema discutere sulle questioni che ci accompagnano in quanto società, ma diventa un problema quando le speculazioni che ne derivano rischiano di farci tornare indietro sulle questioni dei diritti.

L’aborto è una misura medica, non possiamo continuare a paragonarlo a un assassinio. Ricordiamo che la legge 194, che regola l’aborto, è scritta in maniera tale che diventi illegale procedere nel momento in cui il feto è senziente: non appena potrebbe quindi provare le sue prime sensazioni. Da quel momento l’aborto diventa illegale se non per eccezionali questioni. Ci troviamo quindi già di fronte ad una legge che fa di tutto per allontanarsi dal concetto di “assassinio”.

Le donne abortiscono, fatevene una ragione!

Non abbiamo il diritto di definire l’aborto un’esperienza traumatica: almeno non abbiamo diritto di decidere che questo valga per tutte le donne. Produciamo una sopraffazione, pensando di parlare a nome di una collettività.

Questo anche perché per molte donne l’aborto probabilmente è l’ultimo dei problemi. L’inferno lo crea la solitudine interiore a cui le donne sono rinchiuse per la paura di sentirsi giudicate, perchè sentono sulle loro spalle quello stigma sociale che persone come contribuiscono a creare. E poi quel giudizio, che nasce come esterno, diventa interiorizzato. Diventa un giudizio che non permette di sentirsi libere di rivendicare una scelta propria, sul proprio corpo. Leggere che:

“Non si guarisce dall’aborto. Se ne esce vive a metà”

è una narrazione pericolosissima: tramite una forzata e fittizia si opera una sorta di condanna senza appello per un processo a cui nessuna donna dovrebbe essere chiamata. A tal proposito le parole di Federica di Martino sono molto puntuali.

Continuare a parlare di aborto in termini di sottrazione della maternità è un crinale pericoloso, perché ancora una volta subordina il piano dei diritti sul nostro corpo al mero finalismo riproduttivo.

Fondamentale sono le sue parole, che ci ricordano come

“non siamo nate per essere madri, scegliamo se esserlo “(…) Quindi, sarebbe bene che nessuno ci imputasse la necessità reale, mancata o fantasmatica di doverlo essere”

sostenendo perciò che quindi se incorriamo in una gravidanza indesiderata, l’aborto si configura come una pratica sanitaria volta al benessere e alla sicurezza.

Come donne, come soggettività marginalizzate, è necessario scostarsi dalla narrazione di elemosinare i diritti ed iniziare a pretendere di essere trattate col rispetto che meritiamo. Le nostre parole sono strumenti, cerchiamo di non farle diventare armi.

Articolo di Maria Paola Pizzonia

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