Partigiane in bicicletta: la parte non armata della Resistenza

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Di Redazione Metropolitan

Spesso, nell’immaginario collettivo, la figura del partigiano è quella di un giovane uomo vestito con camicia, pantaloni lunghi, fucile in braccio e pistola in tasca, magari con un bel fazzoletto al collo oppure un cappello.

Tutto vero, ma partigiano era qualsiasi uomo che sposò la causa patriottica contro il nazifascismo: padri di famiglia, adolescenti, benestanti o poveri contadini, vestiti con vere e proprie divise o rimasti con pochi stracci sdruciti; e le donne?
Ovviamente ci sono state anche tante donne coraggiose (oltre 30’000) che hanno partecipato attivamente alla resistenza armandosi alla pari degli uomini e, seppur in numero minore rispetto a questi ultimi, il loro apporto fu altrettanto fondamentale come lo fu quello di tante altre donne, giovanissime o già grandi, che parteciparono in maniera diversa alla resistenza italiana: sono quelle che oggi possiamo chiamare staffette, messaggere o collaboratrici ma che all’epoca erano chiamate semplicemente “combattenti per la libertà”.


Le loro armi erano…biciclette, corsa, intuito e la parola, il loro ruolo molto spesso era, come detto prima, quello di messaggere delle brigate, voci che riportavano ai capi partigiani i movimenti, le strategie e ogni notizia o avvenimento che avrebbe potuto interessare i combattenti o cambiare le sorti delle battaglie.
Spesso si muovevano con delle biciclette percorrendo anche diversi chilometri per raggiungere paesini distanti o covi nascosti lontano dalle strade, con in mano dei lasciapassare (a volte falsificati) firmati dalle fabbriche che le autorizzavano a “cercare” vettovaglie per gli operai, riuscivano a non dare troppo nell’occhio e ad attraversare indisturbate i posti di blocco nemici.

Non solo staffette di notizie però, spesso accompagnavano i militanti armati nei loro spostamenti fungendo da vedette apripista, oppure ingaggiavano nuovi partigiani portandoli dai capi brigata, ruolo pericoloso per cui la fiducia era fondamentale, come era fondamentale la rete di conoscenze di farmacisti e medici per rimediare farmaci o curare i soldati feriti nei continui scontri armati. Fu loro compito anche quello di consegnare armi che venivano camuffate in tutti i modi, trasportate con qualsiasi mezzo e con ogni tempo atmosferico, dato che il rischio di venire scoperte e quindi imprigionate se non addirittura torturate e uccise era sempre dietro l’angolo.

Infine ci sono state donne che hanno contribuito alla resistenza armate semplicemente di coraggio, amore e buon senso, offrendo nascondiglio nelle proprie case agli stessi partigiani, coprendo la loro presenza e i loro spostamenti con il silenzio o la menzogna, prendendosi cura dei giovanissimi soldati come farebbe una madre con i propri figli o dell’intera brigata, sfamandola e accomodandola come fosse la sua enorme famiglia, perché quello era: una grande ed unica famiglia.
Non possiamo quindi dimenticarci di ringraziare queste figure a loro modo combattenti, tutte quelle bambine, ragazze e donne che hanno contribuito alla Liberazione operando dietro le file armate, unendo, preparando e curando quell’esercito improvvisato di figli, mariti e padri.

MIRO PATERNO’

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