La vendetta più che il culmine di un’azione e un sentimento. L’azione che ne scaturisce è una conseguenza ultima dell’odio tossico e malsano che pervade un risentimento così profondo. L’entità di quest’ultimo equivale alla misura della pena da infliggere. “La pelle che abito” di Pedro Almodòvar è la quintessenza di tale stato d’animo.
Un Almodòvar senza pietà.
Pedro Almodòvar è un regista sempre sull’orlo dello stato di grazia. Difficilmente zompa in progetti poco credibili, esuli da una personalità ormai simbolo del paese Iberico. Nel 2009, ispirato dall’opera noir del tedesco Fritz Lang, gira questo thriller hitchkociano con tinte da torero che si immerge perfettamente nell’alveo dell’attesa e dello spasmo. Antonio Banderas e Elena Anaya contraltano armonicamente follia e ragione, odio e liberazione. Presentato al festival di Cannes, ha vinto quattro Goya tra cui miglior attrice protagonista.
Pedro Almodòvar è l’emblema della liberazione sensoriale spagnola. Le sue opere appianano le assurde diversità che assumiamo come tali.
Robert Ledgar (Antonio Banderas) è uno stimato chirurgo che conduce una vita da monaco nella sua magione in cui conduce studi di ricerca medica. Gli esperimenti vengono applicati sul corpo di Vera (Elena Anaya), una donna che vive segregata all’interno di una delle stanze dell’immensa villa. L’ambiguo rapporto tra i due rivelerà, attraverso flashback e confessioni, una storia pregna di tormento, vendetta e inquietudine. Un turbinio costante di verità e colpi di scena al servizio di un costante dedalo psicologico.
“La pelle che abito” di Pedro Almodòvar ha il pregio di mantenere la veglia costante con picchi di sonnolenza pari allo zero assoluto ammenonchè si tratti di patologie bradipiche, allora l’occhio pigro è giustificato. Restate a casa.
Seguiteci su MMI, Metropolitan Cinema, Facebook, Instagram, Twitter.