Perché la mostra di Artemisia Gentileschi a Genova è problematica? Riflessioni e proteste sulla pornografia del dolore

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Di Marianna Soru

Inaugurata al Palazzo Ducale, la mostra su Artemisia Gentileschi a Genova si propone di raccontare una delle pochissime artiste donne che hanno ricevuto riconoscimento nella storia dell’arte. Racconto che, però, si concentra solo sulla violenza che la giovane artista ha subito sin da bambina.

Artemisia Gentileschi a Genova: il concept della mostra

Il comunicato stampa della mostra recita: “Modello di tenacia e genialità, di coraggio e determinazione, Artemisia Gentileschi fu segnata dalla sofferenza per la scomparsa prematura della madre e da un rapporto controverso con il padre. Vittima di violenza, fu costretta ad essere protagonista di un processo dal quale uscì vincitrice e perdente al tempo stesso, profondamente ferita nell’anima. All’interno del percorso espositivo un’attenzione particolare è dedicata al travagliato rapporto con il padre Orazio Gentileschi – illustre pittore dell’epoca, amico di Caravaggio e maestro di Artemisia – sfociato poi in una vera e propria rivalità. Diversi confronti serrati tra tele con lo stesso soggetto permettono di comprendere come il talento artistico della figlia abbia potuto superare il linguaggio del padre. I due artisti sono anche messi in dialogo con lo stile di Caravaggio.”

La mostra, curata da Costantino D’Orazio, e la collaborazione di Anna Orlando, è organizzata dalla Fondazione Arthemisia. Inoltre, rientra nel progetto “L’Arte della solidarietà” realizzato da Arthemisia con Komen Italia, charity partner della mostra. L’obiettivo è quello di unire l’arte con la salute, la bellezza con la prevenzione. Nel sito di Palazzo Ducale si legge che una parte degli incassi provenienti dai biglietti verrà devoluta da Arthemisia per la realizzazione di specifici progetti di tutela della salute delle donne. 

Cosa è successo veramente ad Artemisia

Artemisia venne stuprata la prima volta a 17 anni, nella sua stanza. Lo stupratore era Agostino Tassi, pittore e collaboratore del padre. Dopo questo primo assalto Tassi la forzerà ad avere rapporti per nove mesi. Con la promessa di un matrimonio riparatore, per recuperare il suo onore perduto (quello di Artemisia, sia chiaro). Il matrimonio non ci sarà, ma si avvia un processo l’anno successivo per volere del padre Orazio. Che, probabilmente, era motivato più da un furto subito che dal desiderio di rendere giustizia alla figlia. L’artista fu la principale imputata del processo. Tra le varie torture inflitte, ricordiamo le visite ginecologiche pubbliche.

Tassi non subì niente durante il processo, ma venne condannato solo per aver privato la giovane della sua verginità. Inoltre, non scontò mai la pena a cui venne condannato. Non sarà davvero esiliato da Roma, né sconterà cinque anni nelle galere pontificie. Ma, come prevedibile, continua a lavorare indisturbato anche a commissioni papali prestigiose (come il Quirinale). La vita e la reputazione di Artemisia ne uscirono invece distrutte. Nel novembre dello stesso anno fu fatta sposare con il fratello di un amico del padre e trasferita a Firenze. Visse poi tra Napoli, Venezia e Roma, dove si distinse come pittrice, riuscendo a vivere in maniera completamente autonoma, nonostante le discriminazioni che subiva in quanto donna. Le rimase appiccicata la fama di donna lasciva tutta la vita, tanto che abbiamo testimonianze letterarie di uomini che la deridevano, dopo quarant’anni.

Le proteste delle artiste e delle studentesse

A denunciare il progetto curatoriale e i contenuti della mostra sono una decina di studentesse del corso di Laurea magistrale in Storia dell’Arte e valorizzazione dei Beni culturali dell’Università di Genova. Due di loro, Valentina Cervella, torinese che studia a Genova, e Carolina Dos Santos, portoghese, dopo aver visitato la mostra hanno cominciato a denunciarne i contenuti sui social e a coinvolgere diverse figure. Tanto che su Exibart, il magazine digitale che si occupa di esposizioni e arte, ha ospitato una dettagliata e pesantissima recensione, scritta da Noemi Tarantini.

Qualche giorno fa, però, è arrivata la replica della Fondazione di Palazzo Ducale. Che dice: «Riteniamo che il messaggio della mostra sia coerente con l’attenzione che il Ducale in tutte le sue forme ha sempre dedicato ai diritti e alla lotta contro la violenza sulle donne, e sia pensato per arrivare al più ampio pubblico possibile. Rispetto alle critiche che in questi giorni stanno arrivando sulla mostra di Artemisia Gentileschi restiamo aperti al dialogo e al confronto costruttivo».

Cosa c’è di sbagliato nella mostra di Artemisia Gentileschi a Genova?

Una delle tante riflessioni da fare sulla mostra di Artemisia Gentileschi a Genova riguarda innanzitutto la curatela. Leggendo il pamphlet, infatti, compaiono principalmente nomi maschili, tra i quali anche Vittorio Sgarbi. Il problema di questa mostra è uno soltanto: la pornografia del dolore. L’aspetto culturale e il talento di Artemisia sono solo un contorno, brevemente citato solo alla fine. L’immagine di donna forte, che riemerge dalle ceneri, che deve farsi forza rispetto alla violenza subita, è il messaggio che passa, senza accennare minimamente alla reputazione rimasta, e allo sforzo che, in quanto donna, ha dovuto fare per avere le stesse possibilità degli artisti uomini.

Ciò che è più raccapricciante è l’attualizzazione e la trasposizione in chiave moderna di un fatto di cronaca, edulcorato dal sottofondo di musica classica e dall’attrice che recita un vero e proprio copione riportando la violenza in una experience. Il letto, vero, in mezzo alla stanza dove sono proiettate le opere dell’artista coperta di sangue, sono una vera e propria pornografia del dolore. E ciò che porta la vera tristezza e impotenza è che nemmeno 400 anni dopo Artemisia può ambire alla pace: le opere del suo stupratore sono esposte nella stessa stanza delle sue. E la sua citazione più famosa, “Io del mio mal ministro fui“, l’unica ammissione di colpa per averle rovinato la vita, è finita su una t-shirt in poliestere proposta al bookshop.

Marianna Soru

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