Quando si legge che un Paese come la Danimarca sia tra i più felici al mondo, la reazione, per noi italiani, è quasi sempre la stessa: viene da ridere. Un po’ perché è noto che i paesi scandinavi siano i più alti consumatori di farmaci antidepressivi al mondo, registrando peraltro un altissimo numero di suicidi; un po’ per senso comune: pensare di dover vivere lunghi inverni e nella quasi totale assenza di luce solare per molti mesi non alletta. Sono tuttavia ben quarant’anni che la Danimarca si conferma “oasi di benessere”. Sarà perché la felicità viene spacchettata, contestualizzata, scientificamente analizzata, attraverso precisi parametri: reddito, salute, sostegno sociale, libertà, fiducia dei propri abitanti. I danesi pagano tasse molto alte, sì – fino alla metà del loro reddito – ma a fronte di una serie di servizi di prim’ordine. “In Danimarca, poche persone hanno troppo e persino meno hanno troppo poco”, diceva il poeta e politico danese Nikolai F. S. Grundtvig. Governo stabile, basso livello di corruzione, sanità e istruzione di altissima qualità: in Italia la situazione non è esattamente la stessa. Non si tratta di confrontare chi paghi più o meno tasse. Si tratta di cultura. Quel patrimonio di «cognizioni intellettuali che, acquisite attraverso lo studio, la lettura, l’esperienza, l’influenza dell’ambiente e rielaborate in modo soggettivo e autonomo, diventano elemento costitutivo della personalità, contribuendo ad arricchire lo spirito, a sviluppare o migliorare le facoltà individuali, specialmente la capacità di giudizio», dice Treccani. Per essere un cittadino critico bisogna essere colti. La paideia è il fine stesso dell’educazione, l’ideale di perfezione morale, culturale e di civiltà cui l’uomo deve (o dovrebbe) tendere. E per essere colti occorre un percorso istruttivo. L’educazione formale assume, per questo, una grande importanza (pur non essendo l’unica modalità educativa): la scuola, a partire da quella materna (in quanto esperienza iniziale), costituisce il primo importante passo. Anche la ricchezza del Paese dipende dalle intelligenze dei suoi membri, nell’ottica in cui la ricchezza non è solo economica, ma sociale, relazionale, di qualità della vita. E se si considera che l’intelligenza è sempre più vista come il prodotto dell’educazione, allora è sulla formazione, e quindi sulla scuola, che bisogna investire. Nel raggiungimento dei suoi obiettivi, la scuola deve servirsi della cultura. Il problema è che la cultura italiana si mostra particolarmente rigida rispetto a determinate tematiche: quella della sessualità, ad esempio. Finendo per sottovalutare la necessità di un’adeguata formazione.
L’accesso all’educazione sessuale è riconosciuto dall’ONU nel novero dei diritti umani fondamentali
In Danimarca, i bambini hanno diritto ad avere informazioni chiare e oneste sul corpo e sul sesso a cominciare dai 4 anni. Ogni anno, un’intera settimana viene dedicata all’educazione sessuale. I danesi la chiamano «La settimana del sesso», durante la quale i bambini di tutte le età, i genitori e gli insegnanti vengono incoraggiati ad affrontare l’argomento. In alcuni stati americani, invece, l’unico tipo di educazione sessuale concesso è quello che suggerisce l’astinenza come metodo per prevenire malattie e gravidanze indesiderate, e in generale la nudità è un tabù, o addirittura illegale. Ma noi non siamo messi meglio. Nelle scuole italiane non esiste programma curricolare di educazione sessuale, a meno che non venga specificatamente richiesto. E in uno stato civile questa ipocrisia è da inquadrare come nociva. L’accesso all’educazione sessuale è riconosciuto dall’ONU nel novero dei diritti umani fondamentali, mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità dice chiaramente che il raggiungimento della salute sessuale dell’individuo passa attraverso una corretta educazione alla sessualità. Solo che l’Italia preferisce il “fai da te”, delegando questo genere di informazione alla famiglia. E anche lì abbiamo non pochi problemi.
La maggior parte degli adulti con figli non si dice pronta ad affrontare un’iniziativa simile a quella della Danimarca, principalmente perché la maggior parte degli adulti non ha a sua volta ricevuto un’educazione sessuale – escludendo le riviste pornografiche acquistate di nascosto. Eppure il sesso oggi è ampiamento rappresentato, esplicito. Per certi versi invadente. Non ricordo film senza almeno una scena di sesso o qualcosa che vi si avvicini. Ci sono messaggi a connotazione sessuale ovunque: pubblicità, media, social network. Tutti sembriamo sapere tutto e i bambini, di fatto, ne sono esposti fin dalla tenera età. Alberto Pellai, medico, psicoterapeuta e autore di un saggio che tratta il rapporto tra sessualità e nuove tecnologie, intitolato Tutto troppo presto. L’educazione sessuale dei nostri figli nell’era di Internet, parla di «ipermercato della sessualità». Che ai genitori piaccia o meno, le immagini ipersessualizzate risiedono in tutte le “dimensioni” esplorate sin da piccoli. Ma il muro del tabù non può dirsi abbattuto per questo: perché la sessualità non è un tematica realmente sdoganata finché non esiste un’educazione alla sessualità.
Proprio partendo dalla constatazione che i riferimenti sessuali risiedono anche nel linguaggio quotidiano, non serve più chiedersi se sia o meno necessario parlarne. Ma quale tipo di educazione sessuale si intende trasmettere ai bambini. Lasciamo che siano i media e i messaggi subliminali a fare da guida o ci assumiamo la responsabilità? Partendo dai valori e da un tipo di cultura che si riflette in un atteggiamento aperto e sereno. Al contrario di tutti quei genitori che considerano la sessualità come una questione privata e un tema “troppo delicato” da affrontare. In mancanza di “canali” educativi, l’educazione sessuale dei giovanissimi passa attraverso consigli di amici o Internet, quindi il porno. Canali che conservano il loro valore, ma quando si affrontano questioni complesse, legate alla contraccezione piuttosto che alle modalità di contagio di malattie sessualmente trasmissibili, non sono sufficienti. Tra l’altro, «la pornografia propone un’immagine stereotipata della sessualità e puramente eccitatoria», ha detto Pellai in un’intervista a Repubblica. Quella contemporanea è, infatti, una pornografia che risalta un tipo di sessualità fortemente stereotipata. «Da un lato, l’uomo esercita un modello predatorio di sessualità. Dall’altro, la donna è prigioniera di due modalità di comportamento: affamata o riluttante, ma sottomessa”. Evidenziando le motivazioni per le quali i genitori persistono nel silenzio, Pellai ha poi spiegato: “Da parte delle mamme, generalmente c’è imbarazzo. La mamma intuisce dal suo comportamento in quali lidi il figlio stia navigando, ma spesso fa finta di non aver capito, perché non sa come affrontare l’argomento”. I padri, invece, “di solito, sono convinti che la fruizione della pornografia faccia parte del percorso di crescita. C’è anche un po’ di compiacimento nel rendersi conto che il proprio figlio stia crescendo, sia attratto da esperienze trasgressive. I padri pensano che i loro figli stiano ripercorrendo le loro stesse tappe e non avvertono l’enorme differenza qualitativa e quantitativa nella pornografia contemporanea”.
Nel deserto educativo si finisce così per considerare il sesso come semplice atto sessuale, o come atto fine sé stesso, si identifica cioè come semplice sfogo di istinti fisiologici, e non come logica conseguenza del desiderio di vivere le emozioni. Non è una componente che accompagna all’amore: anche semplicemente verso sé stessi. In danese si dice kropsglad, una singola parola che racchiude l’espressione “felicità del corpo”. Un piacere che rende comprensibile il desiderio di tanti di conservare la funzione sessuale anche nell’età adulta. Educando alla sessualità si va ad agire, infatti, sugli stereotipi. Come quello per cui il sesso sia prerogativa dei giovani, inquadrato nell’ottica della fisicità. Nella nostra civiltà dell’immagine solo coloro che corrispondono a un ideale di bellezza “visiva” (giovani, magri, di bell’aspetto) sono degni di avere una vita sessualmente attiva. Di conseguenza si rifiuta l’idea che gli uomini e le donne in terza età abbiano ancora sentimenti, necessità, relazioni sessuali, perché connesso al decadimento fisico generale. Neanche i medici sono immuni da questi pregiudizi culturali rispetto agli anziani. Tuttavia, il bisogno di continuare a sentirsi oggetto di affetto e attenzioni non va calcolato con l’età. La sessualità nelle persone anziane non è un evento “patologico” ma semplicemente una sessualità diversa, più matura se vogliamo. Come afferma lo psichiatra e docente di Sessualità Umana presso la Facoltà di Psicologia dello IUSVE, Salvatore Capodieci, l’invecchiamento del corpo non impedisce di godere di una soddisfacente sessualità, anche se con il tempo alcuni cambiamenti influiscono, modificando l’attività sessuale dopo i 60-65 anni. Questi cambiamenti ne modificano il ritmo. In ogni caso, il mantenersi in buona salute è di aiuto anche nel godere di una sessualità appagante in età avanzata, così come per le donne aver avuto una buona sessualità da giovani: “Le donne che erano in grado di raggiungere l’orgasmo da giovani, possono continuare a provare orgasmi fino a un’età molto avanzata; anzi, alcune donne sperimentano l’orgasmo per la prima volta proprio quando diventano anziane. L’incapacità di provare l’orgasmo in giovane età non significa necessariamente che non possano esserci dei cambiamenti. Il riferito declino del desiderio sessuale, avvertito dalle donne con l’avanzare dell’età, sembra avere prevalentemente un significato originario di difesa psicologica piuttosto che fisiologica”, ha chiarito Capodieci a Today. La vecchiaia, dunque, non è “asessuata”.
“Let’s talk the joy of late life sex” è il titolo della campagna lanciata dall’associazione umanitaria Relate, con l’obiettivo di «togliere lo stigma da un argomento di cui non si parla». Poster di uomini e donne nudi, dai 70 anni in su, hanno invaso Londra, e il resto della Gran Bretagna, a partire da domenica 25 aprile. Collaborando con il gruppo pubblicitario globale Ogilvy UK e il fotografo di moda britannico Runkin, quella di Relate è una campagna che punta i riflettori «sull’invisibile», riprendendo cinque coppie anziane e una donna, nei loro ambienti più intimi. Esplora l’amore a lungo termine quanto quello più osè, in risposta ad una pubblicità che non riesce a rappresentare «la vecchia intimità generazionale», in quanto «persiste l’idea che le persone anziane non dovrebbero, non potrebbero e non vorrebbero fare sesso ed essere intime. Perché? Se ne parla o scrive raramente, ma sappiamo che per molte persone anziane il sesso e l’intimità rimangono una parte davvero importante della loro vita». Secondo una nuova ricerca, Relate dichiara che due terzi degli over 65 (67%) afferma che i media non mostrano quasi mai il sesso e l’intimità relativa alla loro fascia di età, rispetto a un quinto (24%) dei giovani tra i 18 e i 24 anni. Di conseguenza, il 60% di loro «non si sente a proprio agio a parlare apertamente di sesso e intimità, citando l’imbarazzo come motivo principale al 66% – perché “semplicemente non se ne parlava quando ero più giovane” – (64%), non volendo mettere gli altri a disagio (63%), non sapendo quando parlarne (58%) e riscontrando mancanza di fiducia (57%). Per questo è ora di rompere il tabù.
Ciascuno dei soggetti rappresentati è reale, non sono attori o modelli. Ma semplici persone di diverse etnie, forme, dimensioni e sessualità: «Da Andrew e Mark che stanno insieme da 31 anni, a Chrissie che ha avuto una doppia mastectomia e il suo partner Roger, a Daphne e Arthur che si tengono ancora per mano quando camminano». L’obiettivo è che tutti possano sentirsi autorizzati a parlare di sesso e intimità. Ogni gigantografia è accompagnata, inoltre, da una frase volutamente provocatoria, come quella dei due uomini intimamente abbracciati che dice: «Alcuni uomini scoprono di amare il golf. Alcuni scoprono di amare altri uomini»; mentre quella della donna che si masturba recita: «Non è mai tardi per divertirsi con i giocattoli». Quando si dice che l’età è solo un numero, vale anche per l’intimità. «Il bello dell’amore, la cosa per la quale non possiamo smettere di scrivere libri, film e canzoni, è che non ha bisogno di concludersi quando diventiamo vecchi», ha commentato Rankin. E se è vero che si fa l’amore con il cervello dell’altro per raggiungere l’orgasmo, allora vale la massima di Boissolles-Grafeille, per cui «il desiderio sessuale dura finché lo si legge nello sguardo del partner».
Francesca Perrotta