Il Veneto e gli abitanti residenti in un’area che copre una superficie di 180 chilometri quadrati a cavallo di tre province (quasi 400 mila persone), sono stati vittime di una catastrofe ecologica senza precedenti. Il rilascio degli scarti delle lavorazioni dei PFAS, ha inquinato una zona vastissima nel corso degli anni, filtrando nelle falde acquifere e riversandosi nei fiumi. Dalle acque libere, gli inquinanti sono infine giunti nelle abitazioni attraverso i rubinetti. I PFAS in Veneto, hanno colpito così duramente che ancora se ne pagano le conseguenze.

Inquinamento da PFAS: una storia lunga quasi 50 anni

Quando si sente parlare di PFAS, molti non sanno cosa siano. Ma il Veneto e i suoi abitanti lo hanno imparato a caro prezzo. PFAS è l’acronimo inglese di: PerFluorinated Alkylated Substances. In questa macrocategoria di sostanze organiche altamente fluorate, sono racchiuse tutta una serie di elementi che ritroviamo nei prodotti di utilizzo comune e quotidiano. Impermeabilizzanti per tessuti, insetticidi, ma anche nei prodotti per la pulizia della casa come detersivi e igienizzanti o nella cera per pavimenti.

Già dal 1966, la RiMar (Ricerche Marzotto), azienda chimica fondata da Gianni Marzotto, e sostituita da Miteni, produceva composti perfluoroalchilici (PFAS) per l’industria tessile. Nell’area appartenente al comune di Trissino nella provincia di Vicenza, sono state numerose le segnalazioni e gli allarmi lanciati da popolazione e stampa locali. Nel settembre del 1977, la stampa locale diffondeva la notizia della presenza di un inquinamento della falda acquifera. Era dovuto alla presenza di benzotrifluoruro, un composto chimico usato per la preparazione di coloranti e medicinali.

Tale notizia fu successivamente confermata dall’IRSEV (Istituto Regionale di Studi e Ricerche Economico-Sociali del Veneto). L’IRSEV, nel 1979 aveva condotto uno studio geologico sull’inquinamento della falda acquifera nei Comuni di Montecchio Maggiore, Creazzo, Sovizzo e Altavilla Vicentina. Dallo stesso, emerse come già da allora la contaminazione avesse viaggiato attraverso la falda acquifera. Undici anni sono trascorsi prima della sua scoperta e bonifica.

Studi e analisi sono stati predisposti quando c’era ancora tempo

Il 29 maggio 2013, uno studio condotto da CNR-IRSA, commissionato dal Ministero dell’Ambiente, ha rilevato una concentrazione allarmante di PFAS nell’acqua. Per molti anni quell’acqua era stata considerata potabile. Ma la contaminazione è cominciata molto tempo prima dell’amara scoperta; durante gli anni del miracolo economico italiano.

La contaminazione da PFAS nel Vicentino, purtroppo o per fortuna, venne scoperta quasi per caso. Tra il 2004 e il 2006 l’Università di Stoccolma, con il finanziamento dell’Unione Europea, lanciò il progetto PERFORCE, il quale mirava a indagare e approfondire le cause e la presenza nell’ambiente di vari composti chimici di origine industriale noti come PFAS, che vengono tuttora utilizzati in varie applicazioni (conceria, moda, impermeabilizzazione, ecc.). Tra gli stati membri, per l’Italia venne coinvolto nel progetto il Ministero dell’Ambiente.

I dati raccolti nel corso del progetto mostrano come alcune parti del territorio italiano, con speciale concentrazione nell’Italia settentrionale e centrale, presentino una concentrazione abbondante di PFAS. Sulla base quindi di questi primi riscontri, il Ministero dell’Ambiente decise di commissionare uno studio sul bacino del fiume Po e su altri grandi bacini idrografici nazionali.

I PFAS sono cancerogeni

Nel 2011 il Ministero incaricò il CNR e l’Istituto per la Ricerca sulle Acque (IRSA) di condurre le dovute analisi ambientali, al fine di scoprire le origini delle contaminazioni e le potenziali conseguenze sulla salute umana e animale. I PFAS, secondo gli studi disponibili, tendono ad accumularsi nel plasma e in alcuni organi, tra i quali reni e fegato. L’organismo umano non è in grado di espellerli neutralizzandoli autonomamente e la loro concentrazione tende ad aumentare nel tempo in presenza di una contaminazione (come nel caso in questione).

In letteratura medica, i PFAS sono causa di ipertiroidismo, aumento del colesterolo, problemi di fertilità, parti prematuri, malformazioni nei feti e disturbi del fegato. La IARC (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro) li ha recentemente classificati come potenzialmente cancerogeni. Secondo alcuni studi, esiste una correlazione tra PFAS e tumori ai reni e ai testicoli.

Qual’era la concentrazione di PFAS nell’acqua scaricata dalla Miteni?

Il CNR, monitorando e analizzando per due anni, osservò una situazione divenuta allarmante. Le aree inquinate dalla presenza dei PFAS erano numerose. Ma fu una in particolare a destare preoccupazione per la vastità del territorio coinvolta e del grado di contaminazione raggiunto. L’area in questione è quella di Trissino, in provincia di Vicenza, comune situato in corrispondenza di una delle più grandi falde acquifere d’Europa.

Nel rapporto definitivo, pubblicato nel 2013, i ricercatori del CNR descrivono come la maggiore fonte di inquinamento da PFAS provenga dagli scarichi della Miteni, azienda chimica produttrice di fluoro composti. Nelle sue acque di scarico campionate alla fonte, i ricercatori hanno trovato una concentrazione di 7 mila 132 nanogrammi di PFAS per litro.

Dove andavano a finire i PFAS una volta scaricate le acque contaminate?

Tali acque di scarico confluivano nel torrente Poscola, che – sebbene non avesse una grande portata d’acqua, causa principale dell’accumulo di PFAS in quantità maggiori ‒ contribuiva ad alimentare e contaminare la falda acquifera sottostante. I ricercatori descrivono come la contaminazione sia partita dalla superficie per raggiungere la falda nella propria area di ricarica. La falda acquifera in questione è tuttora la principale fonte d’acqua potabile per l’area interessata, comprendente 30 comuni e circa 400 mila abitanti.

Per comprendere fino in fondo la portata della contaminazione, è necessario precisare che fino a quel momento non vi era alcun limite fissato dalla legge per la presenza di PFAS nelle acque, né a livello nazionale né europeo. A livello mondiale, gli unici limiti esistenti erano quelli fissati dall’EPA (Agenzia per la Protezione Ambientale statunitense) pari a 400 nanogrammi per litro solo per il PFOA (uno dei vari componenti della famiglia chimica dei PFAS) e quelli fissati in Germania, pari a 100 nanogrammi per litro, per tutta la macrocategoria dei PFAS.

Le misure adottate dalla regione Veneto per contenere l’inquinamento da PFAS

La Regione Veneto, allarmata dai risultati dello studio IRSA – CNR, chiese al Ministero della Salute quali dovessero essere i valori limite alla concentrazione di PFAS nelle acque destinate all’agricoltura e per il consumo umano. Il Ministero, a gennaio 2014, comunicò i valori contenuti in un parere dell’Istituto Superiore di Sanità. I PFOA (inferiori a 500 nanogrammi per litro), PFOS (inferiori a 30 nanogrammi per litro), altri PFAS (inferiori a 500 nanogrammi per litro). Nel 2017, con Delibera di Giunta, la regione provvederà poi ad aggiornare in senso più restrittivo il limite dei PFAS nelle acque. I valori passano a 90 nanogrammi per litro (PFOA + PFOS), 30 nanogrammi per litro (solo PFOS) e 300 nanogrammi per litro (tutti gli altri). Si decise tuttavia di mantenere come valori limite, per l’acqua destinata agli animali da allevamento, quelli dell’ISS.

La Regione, intanto, attraverso l’opera delle varie aziende consortili per la gestione e la distribuzione dell’acqua potabile, provvide all’installazione di filtri ai carboni attivi per abbattere il contenuto di PFAS nell’acqua per il consumo umano. Nel 2016, un piano di sorveglianza sanitaria per la popolazione esposta alle sostanze perfluoroalchiliche, affiancato da monitoraggio e un campionamento di alimenti che si riteneva potessero essere statti esposti a contaminazione da PFAS, vennero messi in atto. Entrambi i piani suddivisero l’area inquinata in quattro zone, da maggiore a minore rischio. Area rossa (massima esposizione sanitaria), area arancio (captazioni autonome a uso potabile), area gialla (area di attenzione) e area in verde (area di approfondimento).

L’area maggiormente controllata, quella rossa, comprende 21 comuni, per una popolazione complessiva di circa 120 mila abitanti. Nella suddetta area, secondo le analisi delle ULSS competenti effettuate tra il 2013 e il 2017, le quantità di PFAS presenti nelle acque potabili dopo gli interventi sono calate drasticamente, nonostante sporadici discostamenti dai valori limite.

Le nefaste conseguenze dei PFAS nell’acqua

Intervista a una delle Mamme No Pfas (TG Padova)

La sorveglianza sanitaria della popolazione nell’area rossa, ha registrato un eccesso di mortalità del 20% negli uomini e del 14% nelle donne per cardiopatie ischemiche, del 21% negli uomini per malattie cerebrovascolari, del 21% nelle donne per diabete mellito, del 15% nelle donne per Alzheimer/demenza. L’incremento della prevalenza è stato del 22% in entrambi i sessi per quanto riguarda l’ipertensione. Del 17% negli uomini e del 14% nelle donne per il Diabete mellito, del 6% negli uomini per le Cardiopatie ischemiche, del 23% negli uomini e del 22% nelle donne per le Malattie Cerebrovascolari, dell’11% negli uomini e del 14% nelle donne per l’Ipercolesterolemia e del 12% negli uomini e del 9% nelle donne per l’Ipotiroidismo.

Stando a quanto emerge dal Registro Nascita ‒ Coordinamento Malattie rare Regione Veneto ‒ viene segnalato inoltre un incremento del rischio di pre-eclampsia (+49%), diabete gestazionale (+69%), nascituri sottodimensionati rispetto all’età gestazionale (+30%). I dati raccolti prendono in considerazione il periodo 2002-2015.

Parallelamente alle misure di monitoraggio sanitario e al potenziamento dei sistemi di filtraggio negli acquedotti, venne avviato anche un piano di messa in sicurezza del sito dello stabilimento MITENI. Tra il 2013 e il 2017 venne costruita una barriera di pozzi e pompe estrattrici, collegate a un sistema di monitoraggio costante dei valori di PFAS, in modo da arginare la contaminazione della falda. Nei quattro anni trascorsi dal 2013 al 2017, la barriera aveva complessivamente consentito di bloccare l’immissione in falda di circa 55kg di PFAS. Durante i lavori di bonifica, sono poi emersi dei rifiuti che erano stati interrati nell’argine del torrente Poscola per tutta la sua lunghezza, pari a 33 metri. Tali rifiuti, tra i quali PFAS e terreni contaminati, contribuivano nettamente all’inquinamento del torrente e conseguentemente della falda.

Quando è cominciato davvero?

Tale contaminazione, come si può leggere nella relazione dei Carabinieri del NOE (Nucleo Operativo Ecologico), i quali hanno condotto le indagini sull’inquinamento dell’area, risale a un periodo molto indietro nel tempo, trovando origine negli anni ’70 se non prima.

Il flusso delle acque di falda a sud dello stabilimento Miteni, ancora porta le tracce di una grande contaminazione che causò la chiusura di un certo numero di fonti idropotabili alla fine degli anni ‘70 (…). Il risultato dell’analisi del campionamento e analisi spot effettuati da ERM (azienda incaricata da Mitsubishi di analizzare l’ambiente prima dell’acquisizione dello stabilimento nel 1996 – N.d.A.) conferma questa condizione. I rifuti smaltiti o interrati in sito alla RiMar dunque, hanno causato in origine l’inquinamento attualmente in corso. Questo causò la grande contaminazione degli anni Settanta. Le indagini geofisiche, sebbene limitate, confermano in linea di massima questa teoria. Basandosi sulle conoscenze attuali, non è possibile stabilire le dimensioni e le concentrazioni della sospetta contaminazione del suolo (…)

Tuttavia, come viene fatto notare dallo stesso NOE, la nuova proprietà commissionò ulteriori studi e lavori di protezione idraulica. Ma quegli studi non furono in grado di contenere l’inquinamento da PFAS. Occorre sottolineare come la Mitsubishi, non comunicò i risultati degli studi sull’inquinamento del terreno agli enti preposti. Terreno sul quale sorge lo stabilimento e sul quale non venne effettuata la bonifica del sito industriale. Bonifica e opere di protezione che saranno avviate in misura adeguata solo dopo la pubblicazione del rapporto IRSA – CNR nel 2013. Il tutto 4 anni dopo la cessione dello stabilimento da parte di Mitsubishi.

Una compravendita sospetta

La Miteni S.p.A., fallita nel 2018, apparteneva al gruppo International Chemical Investors Group (ICIG) ceduta dalla Mitsubishi. Nel 1965 Miteni era il centro di ricerca per l’azienda tessile Marzotto e conosciuta inizialmente con il nome di RiMar (ricerche Marzotto). Nel 1988, Enichem e Mitsubishi rilevarono la società e nel 1996 la Mitsubishi acquisì il 100% delle quote.

ICIG, holding con sede in Lussemburgo proprietaria anche del gruppo Cordenpharma, acquisì poi Miteni (Mitsubishi-Eni). La ragione di questa acquisizione potrebbe ritrovarsi nelle aliquote fiscali. Le imposte, all’erario nazionale, si versano soltanto se l’azienda è effettivamente residente in Italia. In altre parole, la ICIG non avrebbe versato le tasse per l’attività di Miteni in Italia, avendo sede legale in Lussemburgo. La tassazione sul reddito d’impresa in Lussemburgo non è esattamente favorevole, ma lo sono le varie deroghe che la riducono quando si tratta di holding come la ICIG. Difatti, ICIG non ha attività produttive nel Lussemburgo, ma conta una manciata di dipendenti nella sua sede centrale.

La convenienza come principale preoccupazione

Una holding è un tipo di società finanziaria che detiene la maggioranza delle azioni controllando un gruppo di imprese. ICIG ha sempre trattato acquisizioni di grandi gruppi chimici e farmaceutici, ritrovatisi quasi abbandonati dal gruppo d’origine. Ma perché Mitsubishi non la riteneva più interessante tanto da venderla a un prezzo stracciato a ICIG? L’acquisizione di Miteni S.p.A. da parte di ICIG è avvenuta nel 2009, quattro anni prima che il Ministero dell’Ambiente commissionasse le analisi dell’acqua in Veneto. Da analisi commissionate ad alcune società private di consulenza e bonifica ambientale, riportate nella relazione 2018 della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul ciclo dei rifiuti, emerge che Mitsubishi era al corrente ancor prima del 2013 del fatto che Miteni stesse inquinando l’ambiente.

Ma non solo. La stima per le spese di bonifica e ripristino degli acquedotti superava i 200 milioni di euro, mentre il capitale di Miteni all’epoca si aggirava attorno ai 6,5 milioni. Mitsubishi non attese e vendette al prezzo simbolico di 1 euro Miteni in favore di ICIG. La scelta migliore per Mitsubishi era perdere la società e il suo capitale da 6,5 milioni di euro. Era più conveniente cedere l’attività piuttosto che subire la perdita di un enorme capitale, sapendo già forse che non avrebbe avuto scampo dalle accuse di responsabilità.

Mitsubishi sapeva dell’inquinamento prima della vendita?

Mitsubishi aveva condotto numerose indagini sul territorio prima della vendita. Stimando una eventuale perdita di capitale e valore di Miteni nel corso degli anni, ha preferito lasciar in mano il timone di una barca che affondava a ICIG. L’occasione per ICIG fu talmente vantaggiosa da non potersi sottrarre all’affare e acquistò per il prezzo simbolico di 1 solo euro Miteni che aveva un valore stimato di quasi 34 milioni di euro.

Mitsubishi sapeva perfettamente dell’imminente disastro ambientale del quale sarebbe stata responsabile tramite Miteni. Quando si trattano acquisizioni di società, è prassi che il gruppo acquirente effettui le dovute analisi e indagini su tutto ciò che è connesso alla società che intende acquisire. Risulta perciò alquanto improbabile che ICIG non fosse a conoscenza della tempesta in arrivo. Trattando come già detto acquisizioni di grandi gruppi chimici e farmaceutici, per ICIG acquistare un’azienda dal valore di quasi 34 milioni di euro a un prezzo simbolico, significava ricavarne un grande profitto.

Dove sono andati a finire i soldi?

Inoltre, il capitale detenuto da Miteni, rimase costante (attorno ai 6,5 milioni) da quando avvenne l’acquisizione, nonostante avesse registrato perdite annuali attorno ai 2 milioni di euro. I profitti ricavati dalla tassazione agevolata dove sono andati a finire? Non in Italia. Se il capitale di Miteni è rimasto lo stesso nel corso degli anni registrando contestualmente perdite considerevoli, significa che qualcuno ha divorato Miteni ponendo il denaro nelle proprie tasche. Per quanto tempo una società riuscirebbe a lavorare in perdita? A fronte anche dei tagli sulla manodopera – 50 in totale in dieci anni, 34 dei quali avvenuti sotto l’amministrazione ICIG – sembra che dal momento dell’acquisizione il grande gruppo lussemburghese abbia rosicchiato quanto più possibile da Miteni.

Uno dei più grandi processi ambientali della storia italiana: prove e documenti portati in aula

Processo Pfas (elaborazione foto d’archivio aula tribunale di Vicenza) fonte: Vìpiù

A Vicenza, lo scorso 11 novembre 2021, si è riunita la Corte d’Assise che ha indicato come presunti responsabili per il riversamento di PFAS 15 manager di: Miteni, Mitsubishi e ICIG. Imputati di avvelenamento delle acque, inquinamento e disastro ambientale innominato, gestione di rifiuti non autorizzata e reati fallimentari. Il processo è tuttora in corso ma l’aver individuato almeno dei responsabili, comporta, in caso di condanna, l’obbligo di risarcimento del danno. La richiesta di estromissione da responsabilità civile da parte di ICIG e Mitsubishi ha trovato il rigetto. Se le due multinazionali fossero uscite dal processo, il costo del ripristino e la bonifica dai PFAS, sarebbero ricaduti sulla collettività dopo il fallimento della Miteni.

Il processo è entrato nel vivo effettivamente di recente. Escluse quattro udienze preliminari, i dibattimenti sulle prove fornite dalle indagini sono cominciate nel 2021. Il 1° luglio 2021, si è svolta la prima udienza dibattimentale del processo PFAS Miteni. La Corte d’Assise del tribunale di Vicenza, aveva e ha l’incarico di giudicare i 15 manager imputati con le gravissime accuse sopraccitate. A far valere le loro ragioni nei confronti di Miteni, in oltre 300 si sono costituiti parte civile.

Il ruolo dell’accusa

All’accusa, come testimone, il maresciallo del NOE Manuel Tagliaferri. Tagliaferri ha fatto emergere sconcertanti avvenimenti riguardanti la vicenda legata a Miteni e all’inquinamento del suolo Veneto. Inquinamento che ha reso positivi alle analisi PFAS nel sangue molte, troppe persone, con concentrazioni elevatissime, tali da conferire un rischio inaccettabile per la salute.

La Regione Veneto e l’ARPAV si sono costituite parte civile. Ma Il maresciallo Tagliaferri, nell’udienza del 7 settembre, non le estromette totalmente dalle responsabilità. Tagliaferri afferma: «gli esiti delle analisi non sono stati comunicati ad Arpav, né agli enti amministrativi. E questo né prima né dopo il luglio 2013». Dichiarazione rilasciata in relazione alle operazioni di analisi svolte da Miteni tramite la ERM (ditta milanese che se ne occupava).

Il maresciallo del NOE rivela anche che la Miteni avrebbe chiesto alla ERM di modificare il contenuto delle relazioni successive alle analisi. Dal processo in corso è emerso che avvenne uno scambio di mail tra Miteni e ERM prima che il processo prendesse formalmente vita. Ma la quasi totalità delle mail era sparita quando il NOE è giunto sul posto. Quale fosse il contenuto di quelle conversazioni, rimane attualmente un mistero che verrà forse a galla durante le successive udienze. Un fascicolo è divenuto parte integrante del processo, risultato di un’inchiesta svolta sulle malattie professionali sviluppate dai dipendenti Miteni durante il periodo di attività, essendo stati anche i dipendenti ‒ forse più di chiunque altro ‒ a contatto con gli agenti inquinanti. Per loro purtroppo è sopraggiunta una cattiva notizia. Il sostituto procuratore però ha avanzato al GIP una richiesta di archiviazione.

Il processo fa emergere la responsabilità per l’inquinamento da PFAS in Veneto

Durante l’indagine, il carico di responsabilità per Miteni, non ha fatto altro che appesantirsi. Seppur vero che Miteni già nel 2008 commissionò indagini sul territorio al fine di rilevare agenti inquinanti, è anche vero che fino al 2013, non ha adottato nessuna misura di rilevante efficacia a contenere il rilascio di PFAS in natura. Durante il dibattito infatti, è emersa un’aggravante. Soltanto dopo il 2013 si predispose la messa in sicurezza operativa (Miso). Secondo l’accusa, le gravi mancanze nell’ambito della messa in sicurezza e della bonifica, hanno favorito il fenomeno che era ancora in atto, anche dopo il fallimento di Miteni avvenuto nel 2018.

L’accusa picchia duro

Marco Tonellotto, avvocato difensore di Acquevenete, Acque Veronesi, Viacqua e Acque del Chiampo costituitesi parte civile nel processo, coadiuvato dagli avvocati Angelo Merlin e Vittore D’Acquarone, durante l’udienza del 3 marzo 2022 ha dichiarato: «è chiaramente emerso come il Miso non abbia mai raggiunto il suo scopo, così come non ha mai compiutamente funzionato nessuna delle misure intraprese dall’azienda per contenere l’inquinamento, quando l’azienda stessa era invece la garante di questi mezzi di tutela ambientale e di interdizione del rischio, che avrebbe dovuto mettere efficacemente in pratica».

Marco Tonellotto porta al centro della bufera anche il Miso, lavando via ogni tentativo effettuato da parte degli imputati di dimostrare di aver fatto il necessario per contenere il fenomeno di inquinamento e per tutelare ambiente e abitanti della zona. Miteni dunque sapeva, ma ha agito quando la bomba era ormai esplosa ed era impossibile impedirne la deflagrazione. I tentativi di rimediare o far decadere le proprie colpe sono stati vani.

Chi è alla fine il vero responsabile?

Attualmente, è impossibile stabilire l’esito finale del processo. Sono molte le responsabilità imputate ai manager Miteni. Non è chiaro inoltre se effettivamente la responsabilità per l’erogazione del risarcimento utile alla bonifica della zona ricada sulle due ex-proprietarie di Miteni. Gli avvocati dei manager Miteni e delle due multinazionali giocheranno fino all’ultima carta. Una battaglia che verterà probabilmente su cavilli burocratici o vuoti legali. Non si può in alcun modo negare la loro responsabilità riguardo il mancato rispetto e la negligenza ‒ che si spera in buona fede, nonostante i danni arrecati ‒ riguardo il contenimento di agenti chimici dannosi per la natura e per gli abitanti del Veneto.

Una cosa è certa, le vittime di tutto ciò sono i cittadini veneti. Inconsapevolmente, hanno fatto affidamento sulla bontà e professionalità delle aziende, fiduciosi che sarebbero state rispettose dell’ambiente. Hanno fatto affidamento certamente sugli organi di controllo, che hanno atteso troppo a lungo per sanare una questione che presa in tempo, non avrebbe causato danni così gravi. Si sarebbe potuta evitare.

La legge italiana non ha tenuto il passo

Nelle dichiarazioni rilasciate dal procuratore capo di Vicenza Antonio Cappellieri alle Mamme No PFAS il 18 aprile 2018, la realtà emerge in tutta la sua sconcertante chiarezza. Secondo quanto dichiara, Miteni aveva scelto l’Italia per la sua debolezza riguardo le normative anti-inquinamento piuttosto libertine. Il procuratore afferma: «le sostanze inquinanti, che oramai in modo certo Miteni ha scaricato, all’epoca non erano previste tra quelle espressamente vietate dalle leggi antinquinamento.»

Una “svista” forse dell’epoca, della quale se ne pagano ancora le conseguenze a distanza di 50 anni. Che cosa succederà alla fine del processo, chi verrà condannato, chi verrà risarcito, chi vincerà e chi perderà, è ancora tutto da vedere. Ma questa vicenda ha sollevato certamente una questione rilevante. Col progredire dei tempi e della tecnologia, con la scoperta e l’introduzione di nuovi materiali e sostanze, una nazione non può rimanere indietro nell’adeguamento delle norme atte a garantire un lavoro che non vada a ledere l’ambiente e la salute degli abitanti.

Infine, il vero responsabile di tutto ciò sono le normative. Le aziende che producevano PFAS dal 1966, preferirono l’Italia per le norme meno proibitive rispetto ad altri paesi con aziende che svolgevano la stessa attività. Il vero colpevole purtroppo è la legge, che rimane spesso un passo indietro, fino a quando molte volte, è troppo tardi.

Gli aggiornamenti sul Processo Pfas si trovano al sito www.processopfas.it

Inchiesta di Antonio Farris e Lorenzo Spizzirri