“Nero a Metà” è il capolavoro della prima parte di carriera di Pino Daniele. Un disco straordinario per un artista che trova tra le pieghe di questi dodici brani la misura perfetta nonché la piena maturità artistica-espressiva. Siamo nella primavera del 1980, Pino ha 25 anni e finalmente spicca il magico salto di cui aveva bisogno. D’ora in avanti, sarà nel Pantheon dei grandi.
E “Nero a Metà” è il punto di svolta, il momento preciso in cui il grande pubblico in tutta Italia si accorge di Pino Daniele e giustamente lo premia (300 mila copie vendute, tra i venti album più venduti dell’anno). Ma è soprattutto l’attimo in cui l’artista trova la quadratura del cerchio, l’alchimia magica che sarà formula vincente della sua musica, così originale e innovativa. Un mix ribaldo e sensuale di rock, blues, jazz, canzone d’autore, melodia napoletana, suggestioni acustiche e fulmini elettrici.
Pino è giovane, ma vanta già un’ottima esperienza come strumentista, gavetta maturata nel cuore di quella ‘scena napoletana’ degli anni Settanta respirata a pieni polmoni pur senza uscirne (ancora) da protagonista. Dopo aver suonato nella band jazz-rock Batracomiomachia, accompagna su disco la cantautrice Jenny Sorrenti ed è infine bassista dell’ultima incarnazione dei Napoli Centrale. Proprio con James Senese, sassofonista e cantante di quella band, Pino intesserà un’amicizia, un sodalizio musicale tra i più importanti della sua carriera.
Ma torniamo all’album: già perché, come si diceva all’inizio, questo disco è una prima chiave di volta. Dentro c’è una sostanza sonora magmatica, irrequieta, misteriosa.
Svetta la fascinazione – mai nascosta – per il blues e l’affinità elettiva tra le sofferenze dei neri d’America ridotti in schiavitù per secoli nel Sud degli Stati Uniti e le condizioni miserabili e i soprusi vissuti per altrettante stagioni dagli abitanti del Sud Italia. Anche loro troppo spesso sviliti, sfruttati e sbeffeggiati, in perenne lotta per un posto al sole.
E poi c’è la mescolanza di queste due tribù: gli Stati Uniti che sin dalla fine della seconda guerra mondiale scelgono Napoli come base nel Mediterraneo. Da qui la fusione tra due culture, favorita dalla presenza di marinai e militari statunitensi. Incontro che sarà di amori e di musiche, e di figli che nasceranno con la pelle nera ed entreranno in contatto con la grande tradizione sonora di oltreoceano.
Due di loro Pino li conosce bene: uno è Mario Musella, per metà nativo americano,
ex-cantante degli Showmen, prematuramente scomparso nel 1979 a soli 34 anni.
A lui l’album “Nero a Metà” è dedicato. E poi c’è James Senese, amico fidato e compagno di band, che più di tutti incarna il prototipo di ‘terrone con la pelle scura’.
E Pino cova rancore, monta rabbia rispetto a questa silenziosa, vile esclusione sociale: il centro-nord intellettuale/industriale, la ‘razza padrona’ nei confronti della quale l’uomo del Sud continua ad essere lo stupido/incivile/cafone/ladro/attaccabrighe.
C’è da dire qualcosa, cantare il proprio sdegno, le proprie ragioni, alzare la testa e rispondere alle offese, con l’orgoglio di chi non si piega ai soprusi e vuol dimostrare che c’è ben altro oltre ai cliché e alle cattiverie dei luoghi comuni.
“Nero a Metà” (ispirato anche alla lettura del romanzo ‘Nero di Puglia’ di Antonio Campobasso) è un lungo parto creativo: richiede all’autore e alla sua band molta pazienza, fiducia, disciplina e tenacia. Per quattro mesi, nell’autunno/inverno 1979/80, tra Roma (Trafalgar Studios) e la campagna brianzola (presso l’avveniristico, maestoso ‘Stone Castle Studios’ di Carimate allestito nell’ala di un castello medievale) si dipanano le sedute di registrazione.
Con Pino c’è Gigi de Rienzo (basso), Agostino Marangolo (batteria), Ernesto Vitolo (tastiere) e James Senese (Sax Tenore). A questa formazione di base si aggiunge l’armonica di Bruno de Filippi e una manciata di percussionisti (Rosario Jermano; Karl Potter; Tony Cercola) impegnati in pochi brani.
La gestazione è faticosa, ma alla fine il risultato è straordinario. Dodici episodi in perfetto equilibrio tra rock e canzone d’autore melodica, funky, soul, jazz, parti vocali in dialetto napoletano alternato a italiano o americano maccheronico.
Come dire: Vesuvio e Mississippi. Si alternano brani più energici e tirati ad altri dall’atmosfera soffusa/intimista, con arrangiamenti che mettono sempre in risalto l’affiatamento incredibile tra gli strumentisti coinvolti, senza mai peccare in virtuosismi.
Già negli album precedenti Pino arriva scritto canzoni che iniziavano a cementare la sua carriera, piccole hit in rapida diffusione come “Napule è” e “Je so’ pazz”. Con questo nuovo album, “Nero a Metà”, saltano fuori nuovi classici assoluti, col tempo mandati a memoria dai fans: su tutti citiamo “Quanno Chiove”,
“A me me piace o’ blues” e “Nun me scoccià”. Ma sarebbe un delitto non concedere a ogni brano la sua importanza.
E invitiamo infatti gli ascoltatori, sopratutto chi si avvicina al disco per la prima volta, a trovare il tempo necessario per una fruizione dell’opera nella sua interezza, dall’inizio alla fine. Tante idee e temi salteranno fuori: il potere salvifico della musica, la vita agra nei quartieri popolari, la rabbia, la malinconia, l’ansia e l’inquietudine di chi vive combattendo per difendere la propria libertà. E quindi resistenza, ma anche amore e passione, la poesia quotidiana delle piccole cose.
Pino ti mette subito a tuo agio: è autentico, viscerale, schietto, va dritto al punto. Il suo essere istintivo lo avvicina molto all’interlocutore, che si sente incluso/coinvolto nei pensieri di un amico, tra i progetti e i sogni di un confidente.
Il protagonista di queste storie è un timido: ritroso, fragile, uno che parla poco e che ancora meno si fida della sua voce come mezzo espressivo, al contrario della chitarra che crede suo vero punto di forza. Non è così: il suo timbro vocale, così unico, resterà nella storia della musica italiana.
Quarant’anni dopo quella primavera inebriante di musica e parole, quel viaggio di desideri e speranze, amore e rabbia, siamo ancora qui. Orfani di un grande artista, ma non del suo messaggio. Di tutta la musica che ci ha regalato e che resterà.
Siamo ancora qui ad ascoltare Pino cantare il suo blues migliore. Lo spiamo ancora una volta dalla copertina dell’album: sguardo inquieto, giacca di pelle, jeans e chitarra in spalla. Uno zingaro vagabondo già pronto a ripartire. Il fiume e il tramonto alle spalle. Una strada gloriosa davanti a sé.