Negli ultimi anni, nonostante i progressi nel rispetto dei diritti umani, non si smette di assistere al fenomeno del purplewashing. Un evento che si trova a metà strada tra femminismo e marketing. Una via di mezzo che non rappresenta un giusto compromesso tra due sfere di significato diverse. Ma un apparente perbenismo usato da politici, leader istituzionali e pubblicitari come idea commerciale per raccogliere consensi e applausi.

Una trappola contemporanea dalle origine lontane

Purplewashing, Incendio al Triangle Shirtwaist Company - Photo Credits Bettmann/CORBIS
Purplewashing, Incendio al Triangle Shirtwaist Company – Photo Credits Bettmann/CORBIS

Quando si è cominciato a parlare di purplewashing? Nonostante il termine rimandi ad una trappola contemporanea nella quale si rischia di cadere quotidianamente, le origini del fenomeno sono più lontane di quel che si pensa. Il 25 marzo 1911, in una fabbrica tessile di New York (la Triangle Shirtwaist Company) ci fu un incendio che causò la morte di 146 persone. La maggior parte di queste era composta da donne immigrate, assunte per lavorare anche 52 ore settimanali in cambio di uno stipendio misero. In quell’incidente molti dei presenti vennero colpiti dal fumo viola che si sprigionò dalle fiamme a causa di alcuni coloranti usati dalla fabbrica. Da quel momento il viola è un colore che viene sempre associato alla lotta per i diritti delle donne.

Quell’evento e la nascita di nuovi momenti femministi hanno portato alla coniazione del termine purplewashing. Un termine che purtroppo non ha mai smesso di essere alla moda nonostante il progresso in materia di diritti. Un termine che letteralmente significa “lavaggio-viola” ma che rimanda ad un vero e proprio lavaggio di faccia che molti colletti bianchi fanno pur di conquistare le folle.

Il purplewashing oggi: cos’è?

Nonostante il passare del tempo, il termine purplewashing viene utilizzato ancora oggi. Con questo si intende l’atteggiamento di sposare la causa dei diritti delle donne (o più generalmente cause sociali) in maniera poco genuina. Tipico di aziende, leader istituzionali e politici, questo modo di fare vede la realizzazione di campagne pubblicitarie sull’inclusione, manifesti sulla parità di genere, uso di linguaggi e slogan tipici dei movimenti femministi senza la volontà concreta di trasformare quelle parole in realtà. Ma la sola esigenza di trarne profitto.

La società in cui viviamo è sempre più attratta da tematiche come queste. Di fronte a tale preferenza popolare, molte aziende scelgono di vantare valori femministi e farsi promotori di discorsi sull’uguaglianza di genere senza realmente essere impegnati nel raggiungere questi obiettivi anche nelle loro attività. Ma solo per apparire al passo con i tempi.

“Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”: soluzioni?

La mancanza di consapevolezza del peso delle tematiche di cui si parla sta diventando un problema sempre più in espansione. Presentare la propria azienda come sostenitrice delle pari opportunità tra donne e uomini non risulta motivo di orgoglio se al momento del colloquio conoscitivo si chiede ad una donna se abbia o meno l’intenzione di far figli. Ma contribuisce soltanto a dar prova del fatto che tra il dire e il fare ci sia di mezzo il mare.

Soluzioni ce ne sono? Ovviamente sì. Il vero cambiamento parte sempre all’interno del problema da risolvere. Sarebbe quindi utile che gli stessi dipendenti facciano presente l’esigenza di applicare una policy aziendale coerente e di creare spazi fisici inclusivi. Promuovere progetti legati al benessere aziendale, opportunità di ascolto e continui corsi di formazione porterebbe dei benefici incredibili al posto di lavoro. E’ necessario quindi integrare all’interno del proprio business le cause che si sposano. Farle diventare un valore intrinseco della propria attività.

Giulia Celeste

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