Durante un atteso discorso trasmesso in diretta nazionale questa mattina, il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin ha annunciato di aver avviato le procedure per una “mobilitazione parziale” dell’esercito. Con “mobilitazione parziale” Putin intende fondamentalmente la chiamata alle armi di tutti i riservisti, ovvero tutti gli uomini e le donne che hanno fatto precedentemente parte dell’esercito e ora si trovano in congedo permanente. Secondo le molteplici reazioni internazionali, le dichiarazioni di Putin metterebbero la parola fine alla “operazione militare speciale” con cui ha definito il conflitto innescato dall’invasione dello scorso febbraio e porterebbe a definire un nuovo stato di allerta: quello di guerra totale. Le reazioni dei mercati non si sono fatte attendere: gli indici russi calano a picco e si sospetta che la mossa di Putin non sia piaciuta né alla popolazione né tantomeno ai vertici delle forze armate.

E’ finito il tempo dell’operazione militare speciale: Putin inaugura la mobilitazione parziale dell’esercito in diretta nazionale. Cosa significa per la Federazione Russa?

Un carro armato russo – di fabbricazione sovietica – distrutto dall’esercito ucraino

E’ fondamentalmente una dichiarazione di guerra “light” quella pronunciata dal presidente russo Vladimir Putin. Nessuna novità per chi guarda la situazione esternamente, una conferma definitiva del conflitto per la popolazione russa, fino ad ora convinta che le truppe scelte stessero combattendo un’operazione militare di liberazione. Ma la stoccata inferta dalla controffensiva ucraina delle scorse settimane ha imposto una politica di risposta immediata ed emergenziale. Tutti i cittadini che hanno prestato servizio nelle forze armate sono stati ufficialmente richiamati da ogni parte della Russia. Lo Zar che in Ucraina – stando a una sua dichiarazione dei primissimi giorni del conflitto – “non aveva ancora iniziato”, è costretto a ricorrere a un provvedimento che ha destato malumori. E non solo economici.

Se gli indici moscoviti sono calati immediatamente a picco – la guerra, guarda caso, non fa bene all’economia -, si vocifera di malumori anche tra i fedelissimi, militari e non, del presidente russo. Le città del paese si svuoteranno degli ex-coscritti, le attività che gestiscono o a cui prestano servizio chiuderanno fino a data da destinarsi. Se tutto fosse andato secondo i piani, Putin non si sarebbe mai sognato di azzardare una mossa così drastica. Ma la posizione di debolezza della Russia è ormai acclarata. Intanto, nello stesso discorso Putin ha annunciato l’indizione di uno speciale referendum sull’annessione del Donbass – non una sua idea, propostagli dai funzionari localizzati nella regione, ma a cui ha fondamentalmente dato l’endorsement. Le votazioni si terranno tra 23 e 27 settembre. Certo, un referendum in una zona di guerra non è credibile, soprattutto se indetto da un paese che ha fatto dei brogli elettorali una pratica fisiologica.

Perché indire un referendum in una zona di guerra?

Sebbene sia vero che il fronte sia praticamente giunto alle porte del Donbass senza toccare ancora direttamente le popolazioni russofone lì presenti – ricordiamo che russofone non vuol dire russofile -, un referendum indetto dall’esercito è fondamentalmente una pratica plebiscitaria. Ciò vuol dire che, nel caso più che prevedibile di un esercizio non esattamente “trasparente” della pratica elettorale, con la conseguente annessione “democratica” del territorio, si potrebbe parlare formalmente a una “guerra di difesa” in caso di sfondamento ucraino. Se apparentemente è una questione di forma, il diritto internazionale guarderebbe diversamente l’attacco ucraino, con conseguenze di difficile previsione.

Alberto Alessi

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