“Ho fatto il meglio che potevo con quello che avevo”

Philip Roth

Lo diceva nel 2012, convinto di non aver più nulla da dire: una dolce consapevolezza con cui ora lo scrittore Philip Roth ha smesso di scrivere davvero per sempre, morendo all’età di 85 anni due giorni fa, il 23 maggio, per insufficienza cardiaca.

Tra le radici e lo scandalo, la verità e le paure: il genio di Philip Roth si spegne nelle sue parole fotografiche, nella ricerca di sguardo e in quel punto di vista sempre sopra i tetti dell’America, da cui osservava il fiume della vita e così solo poteva raccontarlo.

Quando nasceva nel 1933 a Newark, nel New Jersey, da una famiglia della piccola borghesia ebraica, Philip Roth già decretava il suo legame con la storia. E in quello spirito ebraico avrebbe poi trovato il profilo dei suoi racconti. Era il volto d’una America giovane, dei suoi ventisei anni e di “Goodbye, Columbus“, era già un’America di sesso e tabù, di tradizioni e vezzi.

Era l’America che Philip Roth guardava come dall’alto di una ruota panoramica, senza volersi poi confondersi. La stessa da cui si allontanava senza fuggire, nella sua campagna solitaria.

Era sempre l’America del politicamente corretto, dell’eccesso e dei miti. Un’America di turbamenti, malata, in fondo, come tutti noi. Così come lo era Alexander Portnoy, il ragazzo ebreo protagonista del libro di Philip Roth “Il lamento di Portnoy”, che gli costò la fatica dello scandalo, o forse il suo godimento.

E nel silenzio dello psicanalista davanti i fantasmi di Alexander Portnoy c’era già l’oblio dei nostri tempi.

A quel silenzio Philip Roth rispondeva con la parola, in una sfida all’ipocrisia, nel chiasso della verità nuda. E quella veste tragicomica era anche l’abito del suo alter ego, il personaggio fantasma Nathan Zuckerman che, dal 1979, lo accompagnava nelle strade dei suoi romanzi. Era lo stesso abito della Pastorale americana, del 1997, in cui una sfilata di personaggi delineavano la storia dell’America, e che gli valse il premio Pulitzer.

Philip Roth,

Ora si dice che fosse il miglior scrittore vivente, che fu il genio della Letteratura americana, eppure del Premio Nobel, prima, non era all’altezza. Ci risiamo, la nostalgica infallibile vana adorazione della morte.

Più di 30 libri pubblicati, una parola che è lente d’ingrandimento per i i soggetti contemporanei: non bastava l’acutezza artistica di Philip Roth per la forma di un Premio Nobel; forse perchè svelava la verità del sesso, la sua natura animale, la stessa che -in realtà- spinge la morale, la stessa da cui si difende la religione.

All’Accademia svedese proprio non andava giù: troppo sfacciato, troppo sfrontato. Eppure in quella lista di candidati al Premio Nobel, Philip Roth c’era da tanto. Quest’anno il Premio Nobel è stato cancellato -rimandato al 2019- per scandali, e non l’avrebbe vinto lo stesso. Ma è un po’ come quella vecchia storia di Bembo che non scelse Dante come modello per la lingua, perchè scriveva in forma “scorretta”, e probabilmente irriverente. Eppure nessuno è eterno come Dante.

Nulla da paragonare, ma non avevamo bisogno del Premio Nobel per leggere Philip Roth, nè per venerarlo ora alla sua morte. E’ tutto già nel quadro ironico delle sue tirature, nell’imperfezione della condizione umana che ci ha raccontato attraverso turbamenti e sconcezze.

Nello straniamento dal mondo Roth custodiva la carica erotica della parola che, sola, ironica e drammatica poteva svelarne la lettura. Non c’è mai evasione, ma immersione: anche quando non usciva mai, soprattutto quando non usciva mai. L’indagarsi della vita era un fatto drammatico da prendere in giro, la scrittura era un bel modo per salvarsi dalla vita.

In Philip Roth c’era la solitudine dello scrittore, che immagina più che inventa, che scruta più che osserva. E che nel sacro distacco dalle cose ne scopre l’essenza. E da quella ruota panoramica Philip Roth si farà sempre una gran risata sul nostro dramma.

Quel che rimane della Letteratura è un sogno lucido, e non ci eravamo accorti che per Philip Roth fosse anche di più, perchè è impossibile concettualizzare la vita, ma  “è per questo che faccio il romanziere. Nell’incontro e nei problemi di un individuo riesco a coglierla, e la presento, nel modo più persuasivo che conosco. Perciò tutto quello che so è quello, e lo so fintanto che continuo a scriverne. Una volta terminata la scrittura, non so più nulla”.

Rossella Papa