Nel 1905 la famiglia imperiale russa e l’intero “impero più grande del mondo” hanno visto tempo migliori, e la situazione non può che precipitare ulteriormente nello stretto giro di due lustri.
L’umiliante sconfitta con il Giappone per il controllo delle strategiche Manciuria e Corea all’esterno, e la rivoluzione interna dello stesso anno hanno aperto delle ferite destinate ad incancrenirsi e a peggiorare con sistematica drammaticità.
Rasputin e i Romanov: uno zar debole e un Impero allo sbando
Lo zar Nicola II, “Nicola il pacifico” per i suoi sostenitori, “Nicola il vile” secondo i bolscevichi, si è ritrovato giovane – 26 anni – alla guida dell’Impero, e pare più interessato alla vita privata lontano dalla corte con la consorte Alice d’Assia e del Reno, poi Aleksandra Fedorovna dopo il passaggio alla fede ortodossa, che alla gestione del regno e dell’immenso e cigolante apparato imperiale.
Modellatosi sull’esempio paterno, rimane restio a qualsiasi rinuncia rispetto all’accentramento del potere, diritto divino concesso agli zar, , ma in seguito ai moti del 1905 si troverà a dover concedere nientemeno che la creazione della Duma, il parlamento a suffragio universale, salvo poi ridurne il potere con una serie di riforme successive. Incapace di seguire la linea che lui stesso si impone, lo Zar cerca un impossibile equilibro tra le imponenti pressioni opposte che lo circondano, sistematicamente convinto della bontà delle altrui mozioni da chiunque abbia abbastanza carattere da sostenerle.
Rasputin e i Romanov: l’uomo giusto al momento sbagliato
Lo zar e la zarina hanno cinque figli: dopo quattro femmine, nel 1904 arriva il tanto sospirato erede maschio, Aleksej. Al contrario delle sorelle, lo zarevic’ è di salute estremamente cagionevole e affetto da emofilia, malattia ereditata dal ceppo materno che ne influenzerà parecchio la formazione.
In assenza di qualsiasi forma di trattamento della malattia, gli zar erano soliti affidarsi, con il beneplacito delle alte sfere ortodosse, a guaritori e ai propugnatori di tutte quelle credenze che, innestando su basi cristiane componenti proprie dello misticismo, mesmerismo e taumaturgia, dopo aver per secoli costituito l’insieme di credenze delle popolazioni rurali iniziavano ad andare per la maggiore anche presso le corti europee. Introdotto a corte dalla principessa Anastasia, Grigorij Rasputin fa quindi la sua entrata in scena.
Proveniente dalla più profonda campagna siberiana, pare che l’esistenza dell’anonimo contadino Grigorij sia radicalmente cambiata quando, poco più che ventenne, sia rimasto folgorato dall’ispirazione religiosa. Abbandonato il focolare famigliare e reclusosi in monastero, Rasputin passa almeno un anno immerso nello studio religioso e impara a leggere e a scrivere. Alterna periodi di stanzialità nella terra natia ad altri dove compie lunghi pellegrinaggi, vivendo di fede e carità e avvicinandosi a quella forma di ascetismo squisitamente russa dello jurodtsvo, o folle in Cristo, subordinando qualsiasi propria necessità, anche primaria, al bene altrui.
Rasputin e i Romanov: il folle in Cristo e il piccolo Aleksej
Forte del peculiare rispetto che la cultura russa ha sempre avuto nei confronti dello jurodtsvo, un paria all’apparenza ma a cui vengono riconosciute capacità sovrannaturali di guarigione e preveggenza, il perspicace e brillante Rasputin inizia a farsi un nome in una società da sempre assetata di figure radicali riconducibili all’idea fondante del Cristo.
Nella spesso nebulosa e contraddittoria ricostruzione della via del monaco folle, pare che Rasputin, nell’estremizzazione ulteriore della sua via verso l’assoluto si avvicini alla setta dei Chlysty, congrega che all’immanenza del Cristo unisce pratiche pagane di mortificazione delle carni e danze rituali di catarsi ed estasi che si concludono con un’orgia collettiva. E’ con questo enorme bagaglio di suggestioni e presunti poteri che Rasputin entra alla corte degli zar dalla porta principale e guarisce il piccolo Alekseji, riducendo di molto le crisi emorragiche che ne mettevano a repentaglio la vita, e con lui la discendenza imperiale.
Rasputin e i Romanov: uno jurodstvo alla guida dell’Impero
Il dado è tratto: alla corte di uno zar sostanzialmente debole ed influenzabile e di una zarina grata per il miglioramento delle condizioni del figlio, Rasputin è un ospite non solo gradito, ma preteso. Molto meno dalla nutritissima schiera di cortigiani e ruffiani altolocati che ritengono inaccettabile che un apparentemente folle contadino siberiano li precede per vicinanza alla coppia imperiale. Ma, complici le frequenti emergenze mediche di Alkeseij risolte da Rasputin anche a distanza di migliaia di chilometri, la sua figura imponente e terrificante diventerà una visione quotidiana per chiunque gravitasse i riservatissimi buen retiro della coppia.
E un problema concreto per i suoi detrattori, tra i quali un posto in prima fila spetta ai vertici della chiesa ortodossa: intorno alla sua sagoma allo stesso tempo spaventosa e messianica inizieranno a girare voci di ogni risma. Insidiatore della purezza della principessa Anastasia, amante della zarina, inappagabile satiro alcolista dal pene abnorme, stregone e spiritista, spia degli imperi rivali, creatura immortale. Una presunta qualità, quest’ultima, che i diversi complotti di corte orditi negli anni mettono a dura prova, ma pare che nell’intero Impero non esista pallottola o coltello in grado di eliminarlo.
Come sua abitudine, lo zar cerca di gestire la situazione all’insegna di un equilibrio impossibile, alternando fasi di allontanamento di Rasputin ad altre di stretto riavvicinamento con lo stesso. Almeno fino allo scoppio della Grande Guerra: per ovviare al difficile situazione bellica dell’Impero, lo zar decide di prenderne in mano personalmente l’apparato e si reca al fronte. Inizialmente contrario all’entrata di guerra, che vede come prologo alla condanna a morte dell’Impero e dei Romanov, Rasputin sostiene poi lo zar nel suo personale coinvolgimento bellico.
Rasputin e i Romanov: la Grande Guerra e la fine di tutto
La reggenza passa quindi nella mani della zarina, che finisce per stringere se possibile ulteriormente la sua vicinanza con Rasputin, ora coinvolto anche nella gestione degli affari di stato e delle stesse scelte di strategia militare. Siamo ormai nel 1916: la guerra per l’Impero è un disastro, l’economia nazionale è allo sbando, la Duma è in fermento e nulla sembra convincere Rasputin ad abbandonare la propria posizione al fianco della zarina, né la propria politica antibellica che scontenta tutti. Il principe Jusupov, conquistata con metodo la fiducia del monaco pazzo, riuscirà ad attirarlo nella trappola che risolverà all’apparenza tutti i problemi dell’Impero: ubriacato, avvelenato, trafitto in più punti nel corso di due sparatorie distinte, alla fine Rasputin si decide a morire.
L’inchiesta ufficiale successiva non riuscirà a fare davvero luce sui responsabili e le reali dinamiche dell’omicidio, ma l’Impero ha ben altre questioni più pressanti. Pochi mesi dopo, a Rivoluzione conclusa, i suoi resti vengono fatti cremare e sparire dalle autorità sovietiche, in modo che il luogo di sepoltura non diventi meta di pellegrinaggio e idolatria.
Andrea Avvenengo
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