Accostamenti inconsueti, colori freddi, poche interpretazioni, dilemmi freudiani. Non conta il mezzo ma il fine, e il fine è quello di suscitare dubbi.
“Il primo merito di un dipinto è essere una festa per gli occhi” sostiene Delacroix in clima romantico ottocentesco.
Nel secolo successivo, René Magritte potrebbe tuttavia ribattere “il primo merito di un dipinto è suscitare un dubbio”.
Annoverato tra i più celebri rappresentanti del Surrealismo, Magritte si differenzia dai suoi colleghi, come Salvador Dalí o Joan Mirò, per la capacità delle sue opere di evocare dubbi, che portino dunque lo spettatore a riflettere sui più svariati temi.
Prerogativa dei suoi quadri è, prima di tutto, la decontestualizzazione. Magritte evita infatti la raffigurazione di elementi fantastici. Nei suoi quadri non ci sono orologi che si sciolgono, né misteriose creature antropomorfe. Il pittore belga utilizza solo oggetti provenienti dal mondo reale, ma raffigurandoli al di fuori del loro abituale contesto, creando dunque estraniamento.
Il disorientamento suscitato nello spettatore deve stimolare la riflessione. Sebbene i dipinti di Magritte siano estremamente ambigui, non ne viene offerta un’interpretazione definitiva. La volontà dell’artista belga sta proprio qui: l’uomo deve interrogarsi, partendo dal singolo quadro, per poi arrivare a mettere in dubbio l’intera realtà circostante.
È la mela che, come un ostacolo, copre il viso dell’uomo? O è l’uomo che vuole nascondersi dallo spettatore? Ma a prescindere, noi vorremmo solamente spostare il frutto per scorgere il volto, perché gli altri elementi del quadro non ci interessano più. Non conta quello che ci appare come nero su bianco. Noi siamo sempre, e comunque, attratti dall’ignoto.
La siepe di Leopardi “che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude” diventa allora l’inconscio freudiano. La complessità della fase rem, l’inafferrabilità di quel mondo fantastico che si aggrappa tra il sonno e la veglia, la profondità della psiche umana. Il tutto si realizza nell’illusionismo onirico dei dipinti dell’artista.
Lo sa anche John Cale, fondatore dei Velvet Underground, che ha pubblicato numerosi album anche come solista. Tra questi compare HoboSapiens, la cui quinta traccia si intitola Magritte. Già nelle prime righe del brano ritroviamo la dimensione di questo onirismo blu, magico e ambiguo.
Often we saw Magritte / Inside a canvas of blue saturated with beauty / In a web of glass / Pinned to the edges of vision.
La tela ritorna qualche verso dopo:
Upstairs there’s a canvas stretched / For umbrellas and bowler hats.
Forse con riferimento al dipinto Golconda, dove un numero indefinito di uomini, in abito elegante e bombetta, piovono dal cielo. C’è una geometria maniacale nella raffigurazione di queste figure anonime e prive di individualità. Che sia una critica all’omologazione dei costumi contemporanei? O all’incapacità di comunicare? Tanti personaggi scendono dal cielo (o stanno salendo?), tutti insieme, ma senza alcun tipo di legame gli uni con gli altri.
Il tema della comunicazione difficile ritorna anche nel bacio tra i due amanti, che consumano le effusioni con il viso coperto da un telo, senza dunque riuscire a vedersi o toccarsi.
Standardizzazione e solitudine. Uniti allo studio dell’inconscio sono solo alcuni dei temi affrontati da Magritte. Il pittore ragiona anche sulla complessità del linguaggio in La Trahison des images (Ceci n’est pas une pipe). Non è una pipa, è solo l’immagine di una pipa.
A prescindere dall’argomento e dalla scelta iconografica, il fine del pittore surrealista è sempre lo stesso: l’invito alla riflessione. A mettere in dubbio le certezze e interrogarsi sulla realtà che ci circonda.
Le nostre giornate sono una gara di conoscenza con i nostri simili, il cui traguardo è l’affermazione di sé. Come se avessimo bisogno di dimostrare di saperne di più, più del tuo compagno, più del tuo amico, più di tuo padre, per poterci guadagnare un ruolo all’interno della società.
E pensare che fu proprio uno dei più grandi filosofi di tutti i tempi a dichiarare l’opposto. “Io so, di non sapere” proclama Socrate. Eppure la vita di tutti i giorni funziona al contrario. Sempre di corsa a dire cose che poi vengono smentire, e poi smentire chi ce le demolisce. E lo facciamo tutti, anche chi studia e chi scrive.
Forse, le feste imminenti potrebbero essere un’ottima occasione per fermarsi un po’. Farsi un regalo e restarsene una mattina in casa in pigiama, a pensare a tutte le cose che abbiamo detto durante l’anno, demolirle e ripartire da zero. Come ha fatto René Magritte e come ha fatto Socrate, arte e filosofia hanno sempre qualcosa da insegnare.
Laura Bartolini