Saltburn: la recensione del film di Emerald Fennell, arrivismo e potere classista

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Di Alessandro Libianchi

Emerald Fennell, proprio come il titolo del suo primo film, è una donna promettente. O meglio, una regista promettente. E, proprio come nella pellicola del 2020 con protagonista Carey Mulligan, è chiaro il tipo di discorso che in Saltburn la regista britannica vuole portare avanti. La narrazione di una efferata lotta di classe è la stessa. Se nel primo è tra maschile e femminile, tra privilegio di genere e oppressione, qui è tra classi sociali alterne. Una storia dal medesimo impatto e, se vogliamo, dai medesimi risvolti. Il personaggio interpretato da un sempre enigmatico Barry Keoghan, Oliver, si fa macchina di vendetta proprio come Cassandra in Promising Young Woman. Lo fa attraverso il duplice stiletto del sesso come coercizione e della seduzione come arma ossessiva. Ma il mantra, nel cinema che sta facendo ascendere sempre più il talento di Barry Keoghan, sembra sempre lo stesso, come in Il sacrificio del cervo sacro di Lanthimos. Non bisogna mai aprirgli le porte di casa.

Saltburn: Barry Keoghan e Jacob Elordi

Saltburn
Saltburn: Barry Keoghan in una scena del film

Oliver racconta a ritroso la storia di come, nel 2006, entrato ad Oxford grazie ad una borsa di studio, riesce a farsi amico Felix (un sempre appariscente Jacob Elordi). Sembra, inizialmente, nei suoi modesti vestiti da classe operaia, ossessionato dalla ricerca di popolarità. E, in particolare, dalla figura bella e impossibile di Felix. Grazie ad un serie di eventi fortunati, i due stringono uno stretto rapporto di amicizia. Con la fine degli esami, Felix invita Oliver a passare l’estate nella tenuta di famiglia. Un enorme reggia nobiliare: la residenza di Saltburn. Oliver entra nella vita di una famiglia dell’alta aristocrazia inglese, inizialmente un po’ strana e invadente. È la coronazione di un sogno per un piccolo proletario con una famiglia difficile alle spalle che si ritrova catapultato nella piena nobiltà. La Fennell mette in moto un’operazione di svestimento della figura di Oliver che cuoce a fuoco lento. Si prende i suoi tempi, anche registicamente, per catturare ogni singola espressione dell’enigmatico volto di Barry Keoghan attraverso tanti, tantissimi primi piani. Mette in scena una pellicola sopita e calcolatrice, che facilmente sarebbe potuta scadere nella pomposità e nell’eccesso barocco. Mette in campo un discorso di arrivismo e lotta sociale che mai scade nel banale, anche attraverso tanto simbolismo (non sempre efficace, soprattutto nel finale). E la scelta del cast è perfetta. Il volto di Keoghan così inquietante ma allo stesso tempo ermetico e affascinante si sposa perfettamente con le intenzioni del personaggio. Così come la metafora del sesso e dell’ossessione verso il corpo crea il ruolo perfetto per Jacob Elordi. Due attori giovani che interpretano due figure sfaccettate nel momento perfetto della loro carriera.

Lotta di classe

Saltburn non scade mai in semplicismi. Anzi, svela le sue carte di opera che parla di lotta di classe solo all’ultimo, nel terzo atto. Ed è probabilmente qui il difetto principale del film. Se tutta la parte precedente aveva l’aria da thriller psicologico, con una flebile fiamma di incertezza su chi fosse la preda e chi il predatore, nell’ultima parte il castello di carte viene buttato giù con troppa forza. Le metafore finali sull’idea di lavoro proletario e resilienza sono molto belle, ma messe giù troppo velocemente e alla costante ricerca dello shock visivo. Saltburn è comunque un’ottima storia di riscatto sociale e scalata arrivista. Il tutto raccontato attraverso un comparto visivo eccezionale grazie al talento di una Promising Young Woman come Emerald Fennell.

Alessandro Libianchi