Avrebbe strappato una lacrima anche a un cotoniere dell’Alabama. Stefano Massini non perdona e tocca: “Questo è il festival della canzone italiana e l’amore è stato declinato in tutte le sue forme possibili, ma c’è un amore di cui non si parla mai, l’amore per i diritti che ci spettano chiunque tu sia”.
La voce dello scrittore è appena rotta dall’emozione: “All’Ariston voglio far risuonare davanti a tutte queste persone una parola che è dignità: viva la dignità”.
L’argomento è serio, le morti sul lavoro: c’è chi cade da un ponteggio, chi viene maciullato da una macchina. Oltre mille persone ogni anno escono di casa al mattino e non fanno ritorno la sera.
È un discorso condivisibile, persino ovvio: chi può dire: “Non sono d’accordo”. Dopo dieci minuti i commenti social, quelli più gentili: “Il comunistaccio non parla mai di doveri”. Un altro cita Marchionne: “Se continuiamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo”. Le legioni di imbecilli (un enorme grazie a Umberto Eco) non mollano di un centimetro, neanche davanti a una strage. Il mantra è quello che leggono – quando sanno leggere – dai giornali della destra più becera: se cali l’asso dei diritti, devi rispondere a doveri. È il gioco della briscola, bellezza: un riflesso pavloviano che non lascia spazio all’immaginazione. “Quali doveri?”, chiede un utente. Cala il silenzio, le pizie del neofascismo tacciono: ciò che preoccupa sono i ‘mi piace’: tanti, troppi. Qualcuno si rende conto del dramma: “Questi votano”
Le parole di Faccetta nera, vera mistica della fascisteria (a)social: “Il nostro motto è libertà e dovere”. Il dovere, si intende, è obbedire al padrone: a qualsiasi condizione. La libertà, ça va sans dire, è quella dagli unici tre doveri che lo Stato comanda a tutti i cittadini: pagare le tasse, rispettare la Costituzione antifascista ed essere solidali con i fratelli d’Italia più in difficoltà (si chiama solidarietà sociale e sta nell’articolo tre della nostra Carta fondamentale).
Questa libertà piace agli squadristi di ogni ordine e grado perché dà agli (im)potenti il potere su qualcuno: i proletari, i diversi, gli ultimi.
Ma soprattutto scioglie i padroni da un obbligo costoso ma essenziale per evitare la strage sui luoghi di lavoro: rispettare i contratti collettivi, fare formazione e provvedere all’acquisto dei dispositivi di protezione.
Da anni i sindacati denunciano il legame tra precarietà e infortuni. Dati Eures alla mano, il rischio di morte tra i lavoratori irregolari è di quattro volte superiore a quello dei lavoratori stabili.
Chi è senza contratto, costretto a lavorare troppo per guadagnare poco, è anche senza diritti: compreso quello di fermarsi. Deve sgobbare fino alla sfinimento, all’esaurimento (crescono anche le malattie nervose), alla disattenzione: magari l’ultima, quella fatale per se stesso o il proprio compagno di (s)ventura.
La risposta per le nuove camice nere rimane la stessa, ancora più disumana di quella dei loro avi (quella destra che provava a dirsi sociale): sei povero? Te la sei cercata. Sei caduto dal ponteggio? Potevi stare attento. Ti hanno picchiato? Qualcosa avrai fatto. L’unica legge – le radici profonde sono gelate da un pezzo con buona pace di Tolkien- è quella della giungla.
Questi fenomeni li riconosci subito: hanno la faccia cubica, chiamano terrorista chi si batte per l’ambiente (bene tutelato nella Carta fondamentale) e definiscono sovversivo chi lotta per la piena applicazione della legge fondamentale dello Stato.
Gli arditi del popolo, i primi ad essersi opposti ai fascisti, li chiamavano vagabondi, nel senso etimologico: chi non ha stabile dimora nella società e nella civiltà del lavoro. Adesso sappiamo che – oltre ad essere vagabondi – questi signori (in qualsiasi modo si definiscano, fascista è chi fascista fa) sono sovversivi: dello Stato sociale e diritti fondamentali consacrati dalla Costituzione repubblicana.