Anno del Signore 2021, pianeta terra, Italia. Gian Paolo Serino nel sito di Nicola Porro attacca la scrittrice sarda Michela Murgia con queste parole: «Diciamo la verità. Michela Murgia attacca il mondo da femminista perché è brutta». Il critico letterario prosegue con perle del tipo: «Da maschilista sono attratto dalla bellezza non interiore: le tettone di “Drive in”, le gambe di Tina Turner e i calendari di Naomi Campbell e Cindy Crawford».
Quello che stupisce non è la banalità del messaggio o l’inconsistenza delle argomentazioni ma il fatto che l’autore pretenda di parlare per “tutti”. Infatti il titolo del post di Serino è “Quello che tutti pensano sulla Murgia”. Inoltre, a voler sondare le flebili spiegazioni del giornalista, c’è una contraddizione e pure bella grossa. Dire, infatti, di parlare per tutti ma poi sviluppare un intero articolo sul fatto di esprimersi da “brutto” ed in quanto tale maschilista non è nemmeno un’argomentazione, è solo incoerenza. Forse che là fuori sono tutti brutti e maschilisti? A ben vedere no.
La “bruttezza come alibi”
Un’interessante formula matematica viene sempre più spesso snocciolata da una certa frangia maschile. Proprio come avviene nel caso di Gian Paolo Serino, infatti, capita spesso che venga proposta l’equivalenza tra il fenomeno di enpowerment femminile degli ultimi anni ed il maschilismo. Commenta infatti il giornalista: «Se fosse stata bella sarebbe femminista? Non credo. Io se fossi stato bello sarei maschilista? Non credo». A nulla vale la battaglia per l’uguaglianza, se ci si passa sopra la pialla della semplificazione. Miche Murgia, stando quindi al ragionamento di Serino sfrutterebbe la sua “bruttezza” come una bellezza au contraire, cioè solo per apparire. «La capisco – chiosa Serino – sono brutto anche io. Ma le invidio che della sua bruttezza ha fatto un alibi per apparire».
Dal “Power dressing” a Grazia Deledda
«Quando vedo Michela Murgia – commenta Serino – la immagino con il grembiule che toglie i piselli dal baccello». Questo a conferma di una tradizione inveterata. Infatti se c’è una cosa che, cascasse il cielo, puoi star sicuro che accadrà è che una donna verrà sempre giudicata prima per ciò che indossa e poi, forse, per ciò che fa. Indipendentemente da quanto capace o, per dirla alla Serino, “brutta” possa essere. Trasposto in senso costruttivo, questo è recentemente avvenuto con il “power dressing” di Kamala Harris. Infatti la prima vicepresidente indiana americana ha sfoggiato un completo bianco in onore delle suffragette. Le donne usavano appunto il bianco per risaltare meglio nelle foto in bianco e nero delle loro proteste in mezzo alla folla di completi scuri degli uomini. Perseverando (o non tradendo il mito del “brutto” maschilista) Serino avvicina la scrittrice ad un personaggio uscito dalla penna di un’altra grande donna italiana: Grazia Deledda. L’autrice premio Nobel ringrazierebbe, Michela Murgia insieme a tutte le donne femministe perché “brutte” anche di più.
La bellezza (e la bruttezza)
Chiudono l’articolo di Serino affermazioni come: «Michela Murgia è sempre scollata e non si capisce perché»; «io penso solo alla bellezza. La bellezza delle donne». Rivendica lo scrittore stesso una parità di diritti. Sostiene cioè Serino che se è un diritto della Murgia vestirsi in un certo modo (rectius “male”) è altrettanto un suo diritto criticare. La conclusione a cui arriva il giornalista è quindi mettere a paragone il diritto di una donna di vestirsi liberamente con quello della critica. Che poi, a contrario, sarebbe lo stesso principio che permette ad un uomo di fischiare se una giovane e bella donna si mette una minigonna. Ecco, questo è veramente il brutto.
di Serena Reda