MMI Italia ha intervistato Matteo Cavagnini, ex capitano della nazionale di basket in Carrozzina. Un viaggio tra ricordi e prospettive future.
Matteo Cavagnini. Un identikit che ai più non dirà nulla o quasi. In realtà, stiamo parlando di un atleta professionista classe 1974 che, nella sua disciplina, il basket in carrozzina, vanta un palmares sterminato.
A livello di club, tra i tanti titoli, può annoverare 5 Scudetti, 7 Coppe Italia, 5 Supercoppa Italiana e 2 seconde posizioni nella Champions Cup (per i calciofili si tratta della Champions League del basket in carrozzina). Con la maglia azzurra, di cui è stato capitano per ben sei anni, ha conquistato tre europei, tre partecipazioni ai mondiali e due alle Paralimpiadi. Sul fronte individuale è stato tre volte miglior realizzatore della nazionale, 2 volte MVP della Champions Cup, 2 volte MVP della Coppa Italia.
Come presentazione sarebbe sufficiente snocciolare i suoi trionfi, se non fosse che Matteo è stato anche nominato, per ben due volte, dal CIP e dal CONI, testimonial del basket in carrozzina.
Una figura di primo piano dello sport nostrano che ha deciso di fare un salto indietro nel tempo tra i momenti più importanti della sua carriera, aprendo, in conclusione, una finestra sul presente e sul futuro dello sport paralimpico.
Ciao Matteo. Innanzitutto, grazie per aver accettato il nostro invito.
Leggendo la tua storia ho scoperto che prima del brutto incidente del 1989, a seguito del quale ti venne amputata la gamba sinistra, sognavi di diventare il capitano della nazionale italiana di calcio…
“Sognavo di diventare un grande atleta, ispirato all’ epoca da Roberto Baggio. Era il mio giocatore preferito, non solo come atleta, ma anche come senso di responsabilità e come uomo”.
Dopo qualche anno, sei diventato capitano della nazionale di basket in carrozzina. Avresti mai immaginato una vita del genere?
“No, mai. Ma sai, un sognatore lo son sempre stato, quindi sognavo di diventare un grande calciatore ispirato da grandi campioni. Dopo ho iniziato a giocare a basket ed il mio sogno ovviamente era quello di raggiungere gli obiettivi che mi proponevo, tipo all’ inizio cominci a diventare bravino, la nazionale la vedi sempre un po’ più vicina ed è ovvio che sogni di diventare un giocatore della nazionale e di giocare, per esempio, finali importanti. Certo non me la sarei mai aspettata così bella, però diciamo ho realizzato parecchi sogni”.
Ci racconti cosa hai provato quando hai saputo che saresti stato il capitano?
“È stata una grande soddisfazione. Non voglio fare il modesto, ci mancherebbe, però l’ho sempre vista più come una responsabilità che come un privilegio”.
Più un onere che un onore…
“È un onore, ma davvero una grande responsabilità. Per come l’ho interpreta io, si tratta di essere quello che filtra sempre le cose, che sa gestire il gruppo nei momenti complicati, che si prende la responsabilità di scelte, di come guidare la squadra. Io l’ho sempre vissuta così, forse troppo, forse avrei dovuto lasciar perdere un po’ di cose e forse avrei pagato meno, però l’ho sempre vista più come una responsabilità che come un privilegio ed un onore”.
Hai vinto tutto quello che si poteva vincere o quasi. Manca solo la Champions Cup, la Champions League del basket in carrozzina. È il più grande rimpianto della tua carriera?
“Si, però ti dico la verità forse rimpiango di più una medaglia olimpica che non la Champions Cup”.
Hai partecipato a due Paralimpiadi…
“Purtroppo nessuna delle due è andata bene. La prima, nel 2004 (ad Atene n.d.r) , ci siamo giocati un quarto di finale con l’Olanda purtroppo perso di poco e lì ci siamo giocati l’accesso alle semifinali, mentre nel 2012 è stata proprio un fallimento la spedizione. Tutto il torneo è stato un fallimento quindi di fatto non abbiamo avuto nemmeno la possibilità di giocarci un quarto di finale.
Comunque io ho avuto la fortuna di giocare due finali di Champions Cup e, sfortunatamente, le ho perse tutte e due. Però in entrambe le manifestazioni sono stato premiato come miglior giocatore. È una coltellata perché oltre al danno anche la beffa. Ho avuto la fortuna comunque di poterla giocare fino in fondo. Se devo dire la verità ho più rammarico di una medaglia olimpica che della Champions Cup”.
Forse se avessi giocato in qualche altro club avresti vinto di più, anche se, va detto, giochi nel Santa Lucia, la squadra più titolata d’Italia…
“Si, nessun rimpianto sotto questo punto di vista. Sono stato cercato per anni da varie società europee fortissime, ma non avrei mai cambiato, mai”.
Dal 2008 sei al Santa Lucia Roma. Una società storica che, dopo il rischio di sparire nel 2016, è riuscita a risollevarsi grazie a tanti sacrifici.
Questa stagione avete dovuto affrontare i play out, superati battendo agevolmente Bergamo. Quali sono gli obiettivi per il futuro immediato?
“Guarda, adesso sta finendo il terzo anno. Il primo abbiamo ottenuto un quinto posto dignitosissimo che nessuno si aspettava perché ripartire così non è stato facile. Ci siamo trovati il secondo anno già a giocarci una semifinale scudetto persa in gara tre contro Cantù (UnipolSai Briantea84 n.d.r.). È stato davvero bello ritornare a calcare certe emozioni. Abbiamo vinto gara uno a Cantù, poi abbiamo perso gara due in casa e poi gara tre da loro è stata un’emozione enorme. Una partita comunque giocata fino alla fine, a due minuti dalla sirena eravamo sotto di uno. È stata una partita tiratissima, purtroppo persa. Comunque, poi la stagione si è conclusa con il successo in Eurolega 2 . È stato un anno fantastico.
Quest’anno siamo ripartiti facendo una scelta che era quella di far crescere il nostro vivaio, quindi abbiamo due-tre giocatori, dico due barra tre perché purtroppo uno è infortunato e sono tre mesi che è fuori dal campo. Ci sono due ragazzi nuovi che sono cresciuti nel nostro vivaio. Dopo un anno di serie B già erano pronti, già scalpitavamo per fare la serie A e abbiamo puntato su di loro. Ovviamente paghi un po’ l’inesperienza come è giusto che sia. Siamo stati un po’ meno competitivi, ma consapevoli di avere un gruppo da far crescere”.
Quanti giorni a settimana si allena un giocatore di serie A di basket in carrozzina?
“Tutti i giorni. Se vuoi competere ad un certo livello, contro i più forti, devi essere tra i più forti. Bisogna allenarsi ogni giorno, con sessioni di squadra o individuali. È la vita normale di un atleta professionista”.
Spostandoci fuori dal campo, un giocatore del tuo calibro in Italia può permettersi di vivere solo giocando a basket in carrozzina?
“C’è la possibilità di vivere con il basket in carrozzina. Gli stipendi non sono esorbitanti, ma sono dignitosi per vivere solo di questo sport. Io di mio ho sempre fatto la scelta di costruire parallelamente la mia vita lavorativa, la mia professione. Ho sempre accompagnato la mia carriera da cestista con quella professionale, per non ritrovarmi poi a fine carriera a dover partire da zero. Ho la fortuna di lavorare per la Federazione Canottaggio, in un ambiente sportivo, circondato da campioni come il mio presidente, Giuseppe Abbagnale, tra i più forti atleti italiani di tutti i tempi (tra i tanti titoli, due volte campione olimpico insieme al fratello Carmine, nel 1984 e 1988, nel “Due Con” n.d.r.)”.
C’è qualche differenza tra l’Italia ed il resto d’Europa per quanto riguarda il modo di concepire lo sport paralimpico?
“Sì, diciamo di sì, dai. In Italia, Cantù (UnipolSai Briantea84 n.d.r.) forse è ancora un paio di gradini sopra tutti. In Europa, lo sport paralimpico sembra un po’ più strutturato. Le squadre hanno molte più possibilità. Forse stanno qualche anno avanti rispetto all’ Italia”.
Sei stato scelto per ben due volte, dal CONI e dal CIP, come testimonial del basket in carrozzina. Negli ultimi anni, lo sport paralimpico, grazie anche a personaggi come Alex Zanardi o Bebe Vio sta crescendo molto anche a livello di visibilità.
Cosa manca ancora secondo te per fare il definitivo “salto” verso una completa “uguaglianza” con lo sport dei normodotati? Potrebbe essere una soluzione quella di far disputare in contemporanea le Olimpiadi e le Paralimpiadi?
“Su questo non sono molto d’accordo. È un dato di fatto che le Paralimpiadi e le Olimpiadi sono due cose differenti. Utilizziamo gli stessi impianti, le strutture, i campi. È un cosa bellissima, ma di fatto è che siamo due mondi ancora diversi. Forse diventerebbe veramente un marasma. Negli ultimi anni stiamo vedendo un po’ tutti che le Paralimpiadi stanno davvero diventando mediaticamente affascinanti, tant’ è che sembra quasi che il margine degli ascolti si sia ridotto tantissimo. Il problema è che non ci possiamo accontentare di avere questa visibilità una volta ogni quattro anni. Questa visibilità dobbiamo cercare di ottenerla durante tutta la stagione, durante tutta la nostra attività e non solo attraverso personaggi come Bebè Vio o Zanardi.
Deve esserci davvero più attenzione. Bisogna lavorare sulla promozione, sulla divulgazione. Noi, di nostro, cerchiamo di andare, nel nostro piccolo, nelle scuole, nelle parrocchie. Cerchiamo di farci vedere il più possibile, di farci conoscere, di far parlare il più possibile di noi”.
Un passo che faresti per velocizzare il processo? Ad esempio, si potrebbe aumentare la trasmissione televisiva dei campionati?
“Nemmeno a farlo a posta, ieri (il 18 aprile n.d.r.) abbiamo parlato con un’emittente nazionale per valutare la possibilità di mandare le nostre partite su un canale nazionale il prossimo anno”.
Ecco, questo passo aumenterebbe notevolmente la visibilità…
“Eh sì. Adesso stiamo intavolando la trattativa tecnica ed economica per riuscire a compiere questo passo”.
Peraltro, così facendo molti ragazzi disabili potrebbero entrare più velocemente in contatto con lo sport paralimpico. Tu stesso hai raccontato di aver conosciuto il basket in carrozzina quasi per caso…
“Il messaggio va sempre mandato, va sempre divulgato. La questione è che non tutti accettano la sfida di un monitor. Spesso bisogna proprio andare a conoscerli, avere la possibilità di incontrarli. Allora diventi non solo un’immagine proiettata, ma sei una persona reale e della quale magari la gente si fida. Dell’ immagine non tutti si fidano. Ti vedono passare come fosse una cosa lontana. E invece no. Cercando di fare promozione locale, di persona è una cosa diversa, molto più semplice”.
Dunque Matteo, in conclusione, cosa vuoi dire a chi ancora non conosce la vostra realtà?
“A chi legge questa intervista dico che sarebbe un pazzo se non accettasse la sfida di contattarci e provare. Le nostre porte sono sempre aperte a chi vuole anche solo provare”.