Distribuito nel 2016, Arrival è stato immediatamente accolto con favore dalla critica. Il canadese Denis Villeneuve infatti difficilmente sbaglia un colpo (speriamo di averne presto la conferma con Dune). Nutrendo il suo dramma di filosofia e teorie più o meno avvalorate dalla comunità scientifica, come piace d’altronde a molti registi di oggi, Villeneuve dà vita a un film che ha poco a che vedere con la comune fantascienza.
Non a caso Arrival si è aggiudicato un bel po’ di premi e nomination. Tra queste, quella come Miglior film agli Oscar 2017 (una statuetta è stata vinta poi per il Miglior montaggio sonoro). Con navicelle aliene che sono un chiaro omaggio alla stele nere di Kubrick ed extra-terrestri che incutono rispetto più che paura, il film è un poetico invito alla comunicazione e alla condivisione. Ma di cosa parla?
La teoria dietro Arrival
Ispirandosi all’Ipotesi linguistica di Sapir-Whorf, Eric Heisserer immagina come l’apprendimento di una lingua molto diversa possa condizionare il nostro modo di pensare e concepire il tempo. Sfociamo così naturalmente nella fantascienza, essendo l’Ipotesi valida ma non nel modo in cui la estremizza lo sceneggiatore.
Una linguista (Amy Adams) e un fisico (Jeremy Renner), nel tentativo di evitare una guerra contro questi alieni improvvisamente comparsi sul nostro pianeta, devono trovare un modo di comunicare con loro. Inconsapevoli però che nell’apprenderne la lingua, ne rimarranno in qualche modo prigionieri. Ne viene fuori un’opera che rimane forse insuperata e che si apre a un nuovo modo di fare fantascienza. Lo aveva fatto Interstellar di Nolan prima, e sicuramente lo faranno altri film dopo.
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Manuela Famà