L’ultima volta che sono stata in un teatro era a Roma, vicino Porta Portese. Un piccolo teatro, con le sedie di legno scomode e una platea di non più di cinquanta persone, in scena un paio di attori che hanno finito lo spettacolo nudi. E sono rimasti così, perché quel teatro ha chiuso

Oggi, un anno dopo, dalle 19.30 alle 21.30 ci sarà un presidio di artisti, cittadini e maestranze per protestare contro le condizioni attuali dei lavoratori dello spettacolo in seguito alla pandemia Covid. A dirlo a voce alta, che l’arte del teatro è “uno spettacolo dal vivo”, tiriamo già le somme sulla metafora esplicita della sua mancanza. 

L’associazione Unita (Unione nazionale interpreti teatro e audiovisivo) questa sera e domani si appellerà al nuovo governo e a tutta la cittadinanza per ridare attenzione alla condizione dei teatri. Purchè si risolvi? Ma purchè se ne torni almeno a parlare – anche male e disperati. Che si renda pubblico un piano – e non più le intenzioni – che preveda la riapertura in sicurezza dei luoghi di cultura.

Facciamo luce sul teatro

«Facciamo luce sul teatro», questo è il titolo della protesta. E un pretesto allora per indagare quelli che sono gli effetti del crollo. I fondi mancano, non ci sono protezioni, non ci sono piani di recupero e la situazione dei lavoratori è un’emergenza nell’emergenza. E che non se ne parli come di un’urgenza altrettanto grave come quella dei ristoratori, non è soltanto un problema ma anche una sconfitta. 

Quello che non si dice, però, è che la chiusura dei teatri è stata una piega inconscia del vivere collettivo. E così, in un modo sicuramente meno pragmatico e invalidante, nella crisi dei teatri ci facciamo parte tutti. Spettatori inclusi. Che qualcuno lo dica una volta per tutte, che l’educazione e la formazione non-accademica ha un valore morale altrettanto dignitoso. E fondamentale, e nobile. Se le scuole sono aperte in qualche modo – si spera almeno con una connessione buona – i teatri hanno soltanto chiuso il portone. E quell’educazione artistica – che è anche formazione personale, ma anche cultura e salute mentale – è stata negata a tutti. 

Si è chiuso il sipario ma non è terminata la finzione. La chiusura dei teatri non solo è il crollo del valore artistico, ma anche la trasposizione (e forse uno spettacolo teatrale a cielo aperto) del cambiamento del vivere sociale del periodo Covid. Non solo è caduto il sipario ma è ceduto il conflitto tra forma e vita, o meglio in sensi cinici: realtà e rappresentazione funzionale. Una caduta plateale e drastica della quarta parete che scandaglia dalle radici la possibilità di una finzione separata dalla vita. Il teatro è il tentativo di accorciare la distanza incolmabile tra ciò che siamo, come persone, e ciò che siamo chiamati a essere in scena, come personaggi. 

E in qualche modo il Covid ha chiuso realmente il teatro, ci ha costretti a un grado di verità che ci ha terrorizzato. La caduta della “maschera”, della funzione – in termini teatrali “la parte” – e del ruolo che ognuno di noi gioca nella vita. L’immobilità del momento storico non ha più preteso da noi la forma, ma ci ha spinti alla verità. Se il teatro rappresentava il disvelamento delle ipocrisie del vivere e della convenzionale della realtà, ora la sua chiusura ci spinge inevitabilmente a una prospettiva realistica. Oppure, amaramente, alla paradossale presa di coscienza che per vivere è necessario il gioco delle parti. 

Dopo il Covid, nessuno risponde

Banalmente ricorrere a temi pirandelliani per riflettere sul ruolo esistenziale del teatro – e ancor di più la sua assenza – nella nostra vita è un tentativo vano di prenderne coscienza. Di quanto questo silenzio abbia pesato sul relativismo delle convinzioni umane. E non è tanto interrogarsi sulle possibilità del reale, o sulla dialettica tra “maschera” e “forma”. Se il teatro è un modo per imparare a conoscere prima sé stessi e poi la realtà, ci permette anche di fare i conti con le pulsioni che identificano l’uomo. Come veicolo sociale, la chiusura dei teatri ha interrotto un processo di interiorizzazione che educava l’uomo. Trasversalmente, il teatro era un mezzo per dominare e interrogare le debolezze, le meraviglie e le ritrosie umane. 

E ora che le luci sono spente tu continui a domandarti, e nessuno risponde. Non c’è maschera che ammonisca, vedetta che indichi e parrucca che addolcisca. 

Hanno chiuso i teatri ma lo spettacolo, dietro il sipario, prosegue. Perché quello che rende la vita il teatro e il teatro la vita è una storia. E c’è una storia solo se dietro c’è una verità. La tua qual è?

Una donna gridava
dal finestrino chiuso,
ma io sentivo un cane abbaiare:
      così pensavo fosse la paura.
 
Il futuro è una scelta.
Ora sento le voci incazzate,
era una cosa che ho visto fare 
a Carmelo Bene:
     così pensavo fosse la verità.

Rossella Papa