“Teen Spirit”: un ricordo di Kurt Cobain (1967/1994)

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Di Redazione Metropolitan

A 25 anni dalla morte del cantante dei Nirvana, band-simbolo degli anni Novanta, ci sembrava doveroso omaggiarlo con un articolo/racconto che partisse da lontano, dal giorno della sua dipartita. E che da lì ci rivelasse ancora qualcosa dell’uomo, dell’artista.
Del Rock oggi in via d’estinzione e del Mito che invece sopravvive nell’immaginario collettivo.

Seattle, Stati Uniti, 5 aprile 1994. Sorge un’alba fredda, umida, nebulosa.
Il volo di un gabbiano ci porta dall’oceano fino a nord della città, vicino al lago Washington. Nel quartiere alto-borghese Denny/Blaine, dietro un piccolo giardino pubblico c’è una villa a tre piani. Ha un aspetto ben più lugubre e dimesso rispetto alle sontuose dimore circostanti.
Sembra una casa di fantasmi e in un certo senso lo è.

LA CASA: L'ultima casa in cui abitò Kurt Cobain: 171, Lake Washington Blvd. East. 
Acquistata nel gennaio del 1994 (Fonte: es.wikipedia.org)
L’ultima casa in cui abitò Kurt Cobain: 171, Lake Washington Blvd. East.
Acquistata nel gennaio del 1994 (Fonte: es.wikipedia.org)

All’interno della proprietà, accanto alla villa, una struttura rialzata a tetto spiovente: la serra sovrastante il garage. Di solito non c’è quasi nulla a parte vasi vuoti e terriccio ammonticchiato.
Il mondo ancora non sa, ma quel mattino lì dentro c’è qualcuno, riverso sul pavimento.
Capelli lunghi, lisci e biondi. Occhi ormai chiusi. Una maglietta nera, camicia sgualcita bianca e jeans lisi con scarpe da basket.
A uno sguardo distratto, potrebbe sembrare un manichino.
Ma c’è del sangue vicino alla tempia. E un fucile, adagiato sull’addome.
La mano sinistra ne stringe ancora la canna.
E’ puntato sul mento. Grilletto verso il buio, la pace, Il Nirvana.
Ha sparato da pochi istanti: il colpo e il tonfo del corpo sul pavimento restano tuttavia inascoltati.

SUICIDE SCENE: La scena del suicidio: 8 aprile 1994 
(Fonte:  Dark Horse News )
La scena del suicidio: 8 aprile 1994
(Fonte: Dark Horse News )

Il piccolo corpo esanime è del padrone di casa, un ragazzo di 27 anni dagli occhi blu. In questa vita è stato un cantante, un musicista, una rockstar, un’icona generazionale. Lo show business ai suoi piedi.
Al suo fianco una moglie, una figlia, una band: la sua.
Un abbraccio insufficiente. Già, perché per quel ragazzo schivo, umorale, fragile, vulnerabile, “Il” desiderio si è avverato portando con sé troppo peso, troppo presto e troppo rumorosamente. Infine i suoi demoni l’hanno raggiunto. E’ ora di smetterla e scomparire. Smettere di sentire dolore: questo è quel che vuole. Fuori per sempre dagli schermi di Mtv, dagli obiettivi dei fotografi, dalle copertine di riviste patinate, dai palcoscenici di tutto il mondo. Paladino di nessuno, portavoce di nessuna generazione.

Le uniche due voci cui dare ascolto prima di andare: quella urlante del suo stomaco in allarme, ulcera gastrica fatalmente aggravata a suon di antidolorifici, eroina, cibo spazzatura, depressione mal celata; infine la sua Stella Nera, col suo drammatico verdetto.

Non troveranno il cadavere che dopo alcuni giorni, per caso: sarà un elettricista, giunto in villa per sistemare un impianto d’allarme.
Ma è già troppo tardi. Tutti lo hanno cercato, inutilmente.
La polizia, gli amici, persino un investigatore privato ingaggiato dalla moglie. Ma lui sapeva come nascondersi, come far perdere le sue traccie.

Per le strade e i fast food e i motel di Seattle c’è chi lo intravede, come un fantasma in quei primi giorni di aprile: il cappello da caccia alla “Davy Crockett” calato sul viso, gli occhiali da sole anni Sessanta in stile “Jackie Onassis”, strati su strati di vestiti e giacche sulla sua corporatura esile.
Cammina senza meta, girovaga, non parla quasi con nessuno, trascorre le sue giornate a farsi di eroina e dormire in tristi appartamenti di periferia, sballato di fianco a tossici qualsiasi.
In cerca del coraggio per chiudere il conto e andare via.

Ci aveva già provato un mese prima, a Roma, durante una pausa auto-imposta dell’ultima tournée europea dei Nirvana. Overdose di Champagne e tranquillanti. Cinque giorni di coma. Poi, il miracoloso risveglio.

Calerà purtroppo il sipario quella mattina, 5 di aprile, dopo aver scritto a penna rossa una lettera di commiato per moglie/figlia e fans, un ultima dose letale e poi solo la scorta verso le tenebre propiziata dal fucile Remington calibro 20 acquistato pochi giorni prima.

RITRATTO: Una suggestiva immagine di Kurt in B/N (Fonte: Youtube)
Una suggestiva immagine di Kurt in B/N (Fonte: Youtube)

Calano le tenebre sulla sua breve esistenza, ma non si spegne la fiamma di ciò che Kurt Cobain e i Nirvana hanno rappresentato per intere generazioni di ragazzi. Al contrario: diventa un Mito.
La sua voce graffiante, così diversa e unica: capace di urlare disagio, rabbia, frustrazione, non appartenenza. Insofferenza e ultra sensibilità allo stesso tempo. Similmente arrivava anche la musica della sua band: melodia di velluto e poi un pugno assestato in piena faccia, equilibrio precario tra esplosioni di chitarre elettriche e ritornelli memorabili già al secondo ascolto.

Seattle, da città ‘periferia dell’impero’ del nord ovest statunitense, nota ai più soprattutto per aver dato i natali a Jimi Hendrix, da una stagione all’altra inizia ad attirare giornalisti musicali da ogni dove e diventa d’improvviso Mecca del rock. Nel giro di 5/6 anni espone al mondo un nuovo sottogenere, il Grunge (rabbioso ibrido di furori punk e metal, affilato da grandi melodie) e i suoi alfieri, vale a dire Mudhoney, Melvins, Green River, Screaming Trees, Soundgarden, Nirvana, Pearl Jam, Alice in Chains. E i suoi cantanti solisti dalle voci mai dimenticate: Lanegan, Arm, Vedder, Cornell, Cobain, Staley…

A Cobain e soci bastano tre album di studio per ridefinire la storia del rock: soprattutto il secondo, “Nevermind” e il suo singolo-tormentone, “Smells Like Teen Spirit”, inni di una generazione di delusi e di arrabbiati, di ‘losers’ anti-divi in camicia a scacchi di flanella, bramosi di elettrica rivalsa.

Grazie alle loro doti interpretative, e all’innegabile fascino scostante e maledetto di Kurt, la band si ritrova nel volgere di pochissimo dal riempire locali di qualche migliaio di persone al partire in tour estenuanti in giro per il mondo, arene/stadi/interviste e una sovraesposizione mediatica esagerata, davvero insostenibile.

Almeno per il leader, cantante e autore delle canzoni.
Che sopporta ma somatizza tutta quella pressione, incamerando più buio che luce, più rancore che gratitudine e soddisfazione.
Non ce la farà a gestire il peso di quel tipo di successo divistico.
Non prova più le emozioni degli esordi, preferisce sparire
.

RITRATTO A COLORI: Parigi, febbraio 1994: ultima seduta fotografica di Cobain e Nirvana (Fonte: Flickr)
Parigi, febbraio 1994: ultima seduta fotografica di Cobain e Nirvana (Fonte: Flickr)

Morto un Re, se ne fa un altro. La musica ‘giovane’ nella primavera ’94 è ancora prodiga di stimoli e indomita nel lanciare nuovi eroi nell’arena, meglio attrezzati psicologicamente e pronti come non mai a ricevere la luce inebriante dei riflettori al posto dell’ angelo caduto, dell’ “ingrato” Cobain.

————— Salto Temporale, riavvolgimento rapido del nastro

25 anni più tardi, il rock non esiste quasi più. Non fa più moda né notizia, non cambia le vite. Scompare dalle classifiche, dai poster sul muro, dagli scaffali. Non aggrega intorno a sé vaste tribù di giovani, non è più l’unica medicina sonora per i turbamenti di un adolescente.
Al suo posto, naturalmente, mille altri stimoli: album digitali e “invisibili”, riprodotti in rapida serie e modalità ‘streaming’ dallo smartphone o dal computer di casa; generi musicali distanti anni luce che, in qualche modo, hanno saputo infatuare gli adolescenti sostituendosi con successo a quello Spirito Originale che da Elvis Presley ci aveva portato sino almeno agli Arctic Monkeys.

Se non è morto suicida, di sicuro il rock negli ultimi 10 anni ha preso altre strade, fatto perdere le sue traccie, proprio come Kurt Cobain in quei primi giorni di aprile del 1994. Vive ancora nei dischi di giovani artisti le cui opere abbagliano (soprattutto i ben informati e gli addetti ai lavori) ma al tempo stesso necessitano di essere trovate, come un tesoro sepolto/sommerso.
Per il resto, anche se in formato ‘reliquia’, il cosiddetto ‘Rock Classico’ non è mai stato così presente: musei a tema, celebrazioni postume dei “bei tempi che furono”. Cofanetti sestupli, tournée malinconiche, magliette, spillette, documentari, “lezioni” aperte tenute dai reduci, veterani di antichi raduni.

Ne siamo fruitori oggi come non mai. E ci manca, oggi più di sempre.

Ariel Bertoldo