La scelta del titolo di giornale è un momento fondamentale. Bisogna scriverne uno che attiri l’attenzione e che faccia venire voglia di leggere l’intero articolo. Però, mi sembra utile specificarlo, occorre anche essere certi che nessuna parola utilizzata costituisca una mancanza di rispetto nei confronti (ad esempio nel caso di articoli di cronaca) della vittima o della “categoria di persone” che la vittima rappresenta.
Qualche giorno fa, mentre leggevo notizie sul web, mi sono imbattuta in un titolo che, in un primo momento, non sono neppure riuscita a decifrare: “Notte di sesso con una disabile: pensionato sotto accusa”.
Perché un pensionato dovrebbe essere finito sotto accusa per aver fatto sesso? I pensionati non possono fare sesso? È una questione di vecchiaia? Oppure no, forse è una questione di disabilità. Mica in Italia è vietato far sesso con una persona con disabilità? Ma davvero? Non può essere.
Quindi ho deciso di leggere l’articolo. E questa potrebbe essere una vittoria per il giornalista, perché è riuscito a farmi passare del tempo sul sito su cui, lo stesso articolo, era pubblicato. Solo leggendo mii sono resa conto che in realtà il pensionato aveva STUPRATO, scritto in grassetto e in maiuscolo, una ragazza 20enne che, distrutta, era riuscita a denunciare.
Cosa c’è di sbagliato in questo titolo di giornale?
Prima di tutto la parola “sesso“, non perché sia poco elegante in un titolo ma perché è la parola sbagliata. Il sesso non consensuale si chiama STUPRO, sempre in grassetto e in maiuscolo, perché non dobbiamo aver paura di usare questa parola.
Il pensionato ha passato una notte a violentare una 20enne, è sotto accusa perché l’ha violentata, non perché ci ha fatto sesso.
Io stessa, alla prima lettura, ho pensato che il titolo suggerisse che l’uomo fosse sotto accusa perché ha fatto sesso con una persona con disabilità. Scrivendo “sesso con una disabile”, l’autore credeva di scrivere una frase che lasciasse intendere che la persona con disabilità in questione non avesse la capacità di intendere e di volere. Andando quindi a cavalcare quel pregiudizio secondo cui non è possibile che una persona con disabilità possa avere una vita sessuale sana (e consensuale).
Il termine “disabile”, in realtà, non era affatto indispensabile ai fini della narrazione. L’espressione “una disabile” è a dir poco disumanizzante. La donna ha subito una violenza e l’unica cosa su cui riusciamo a concentrarci è la sua disabilità?
Sarebbero bastati cinque minuti , e magari una visita al profilo Instagram di Sofia Righetti, che avrebbe potuto insegnare all’autore che per parlare di una persona con disabilità, non basta scrivere “una disabile”. Sarebbero bastati cinque minuti per rendere questo titolo meno sessista, abilista e mostruoso. Ma forse ancora è chiedere troppo.
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