Cos’è il tokenismo? La parola deriva dal termine “token”, letteralmente “pegno”. Si tratta dello sforzo da parte di alcuni gruppi, di introdurre rappresentazioni di una minoranza (etnica, sociale) per trasmettere all’esterno l’idea di inclusività. Il confine tra inclusione ed opportunismo è sempre più sottile, per cui occorre ad oggi saper riconoscere quando la diversità viene celebrata o quando è solamente una pedina da muovere per vincere la partita.
Diversità, inclusione e tokenismo
Per determinare la linea sottile tra inclusione e tokenismo, occorre porsi le domande giuste. Molto spesso accade infatti di cadere in stereotipi razziali e sociali, quando lo scopo principale era quello di favorire l’inclusione. Prima di tutto bisogna conoscere la differenza tra diversità, inclusione e tokenismo. La diversità è la comprensione e il riconoscimento dell’unicità e delle differenze. Comprende quindi, l’accettazione ed il rispetto. L’inclusione consiste nell’accogliere tutte le persone senza evidenziare barriere create da differenze sociali, di genere, etniche, religiose…
L’obiettivo è quindi quello di dare pari accesso e opportunità a tutti. Se diversità e inclusione appaiono strettamente legate, in quanto potremmo dire che l’obiettivo dell’inclusione è quello di onorare la diversità in ottica di accettazione, diverso è il caso del tokenismo. Il tokenismo è la pratica di coinvolgere delle minoranze al solo scopo di evitare critiche e dare l’illusione dell’equità.
Media e tokenismo
Il riscontro più diretto che la nostra società ha con il tokenismo è sicuramente quello mediale. Nelle società occidentali e occidentalizzate, i media diventano il riflesso dei principi sostenuti. Ciò comporterebbe che, in una società democratica, l’inclusione delle minoranze sarà uno dei pilastri su cui si baseranno interventi mediali. Da quest’ intervento deriva quell’errato comportamento di inserire in maniera completamente decontestualizzata, la presenza di minoranze al solo fine di essere politicamente corretti, facendo cadere tale presenza in una forzatura.
I recenti live action della Disney, come “La Sirenetta” (2023, Rob Marshall), hanno tracciato una netta differenza tra due diverse squadre di pensiero. Una prima difende il diritto dei bambini neri di vedere sugli schermi una principessa in loro rappresentanza; l’altra, rivendica gli intenti della Disney, di voler posizionarsi a tutti i costi, come rappresentante del politicamente corretto, anche a scopo di modificare l’estetica di riferimento dei protagonisti dei cartoni passati.
Ora, non è semplice comprendere se “La Sirenetta” sia un caso di inclusività o tokenismo. La risposta potrebbe dipendere dalle giuste domande che decidiamo di farci e dalle informazioni di cui disponiamo.
Hanno incluso una persona appartenente a una minoranza per un’agenda politica? Lo fanno solo per sfruttare le minoranze? O forse per dare credibilità a un film o a un’opera?
Pensiamo ad esempio a “Black Panther – Wakanda Forever” (2022, Ryan Coogler). Ogni personaggio non viene definito solo dal colore, ma anche da un ricco background culturale che permette agli spettatori di apprezzare la cultura africana, unica e colorata. Mostrare storie di fondo e scorci di background culturale di questi personaggi, permette di scoprire e comprendere la bellezza delle diversità culturali. In tal modo, la diversità passa in un percorso inclusivo, in quanto viene celebrata per quello che è e non strumentalizzata. Ciò darà alla società una visione chiara, una comprensione e un apprezzamento delle nostre differenze.
Il test di Bechdel e il principio di Puffetta
Potremmo dunque dire che se la cosiddetta “diversità” non va in alcun modo a beneficio delle persone che cerca di rappresentare, probabilmente si tratta di tokenismo.
I media e l’industria cinematografica potrebbero continuare a impegnarsi dando alle minoranze una varietà di ruoli che mettano in risalto le loro individualità più che ciò che le rende “altre”.
A tal proposito, un interessante spunto di riflessione potrebbe partire dal cosiddetto test di Bechdel.
Due amiche decidono di andare al cinema. Una di loro però pone tre condizioni sul film da vedere:
Tra i personaggi del film ci devono essere almeno due donne di cui si conosce il nome.
Le due donne devono parlare tra di loro
Le due donne di cui si conosce il nome e che parlano tra di loro non devono parlare di uomini, che siano mariti, fidanzati, amanti, figli, fratelli, parenti, amici.
Vignetta su “The Rule”, 1985 – Alison Bechdel – Fonte: oggitreviso.it
Da una famosa vignetta, ideata nel 1985 dalla fumettista Alison Bechdel, è stato tratto il “Test di Bechdel“, un modo di analizzare i contenuti di genere veicolati dal cinema. Si tratta di tre regole, per individuare rappresentazioni del mondo femminile esenti da caratterizzazioni sessiste.
Da questo test, deriva il cosiddetto “Principio di Puffetta”, una teoria sociologica degli anni ’90 secondo la quale nei media è usuale osservare una schiera di uomini con diverse personalità in contrapposizione a una sola donna, inserita esclusivamente in quanto femmina.
Dal 1985 il cinema ha sicuramente fatto passi in avanti per quanto concerne l’inclusione di genere, ma è anche vero che non possiamo ancora definire con esattezza quanto alcuni caratteri siano inseriti nella storia in quanto necessari o come “decorazione”.
Potremmo benissimo sostituire altre tipologie di persone alle “donne” della vignetta e farci le stesse domande quando ad apparire sugli schermi è il rappresentante di una minoranza.
Martina Capitani
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Ph: Tokenismo – Photo Credits thehindu.com