“Toro Scatenato“, il capolavoro di Martin Scorsese, compie quarant’anni. Oggi, in tanti potrebbero definirlo come la pellicola più importante della carriera del regista newyorchese, tuttavia, il percorso che ci ha portati a questa affermazione è stato molto più travagliato di quanto sarebbe possibile pensare.
Un esempio perfetto potrebbe essere la lista stilata dall’American Film Institute sui migliori film statunitensi del XX Secolo, la quale, nel 1998 lo classificò inizialmente al ventiquattresimo posto, per poi farlo balzare al quarto. Inaspettato e impensabile se si considerano gli incassi non molto rassicuranti e le poco edificanti critiche all’indomani dell’uscita nelle sale. Oggi, visto il continuo proliferare delle biopic, in parecchi sarebbero portati a ricondurre a ciò il “revisionismo” di “Toro Scatenato”, ma, come tenteremo di illustrare nelle prossime righe, esso non è di una semplice biopic, ma la biopic.
Il toro scatenato del Bronx
Innanzitutto, partiamo raccontando brevemente la storia. Giacobbe “Jake” LaMotta (interpretato da Robert DeNiro), cresciuto negli ambienti italoamericani di New York assieme al fratello/manager Joey (Joe Pesci), riesce ad affermarsi come pugile nelle categorie di peso: welter (prima) e medi (di cui diviene campione mondiale nel 1949). Tuttavia, il suo carattere bizzoso, la sua poca propensione ad accettare patti che non lo avvantaggino con la criminalità organizzata, e il suo continuo sospetto che la moglie Vicky (Cathy Moriarty) gli sia fedifraga, lo porteranno verso una lenta e misera caduta, spingendolo a esibirsi come cabarettista in locali di quart’ordine e persino in carcere. Un declino per cui incolperà sempre gli altri e senza rendersi conto di esser stato lui la causa di ogni suo male.
Il toro contro tutti
Non c’è posto per gli eroi
Perché “Toro Scatenato” non è una biopic come se ne vedono a migliaia oggi? Per rispondere a questa domanda partiamo dal paragonarlo a un altro film ambientato nel mondo della boxe: “Rocky“. Traendo spunto dal celeberrimo pugile Rocky Marciano – coevo di LaMotta -, le storie raccontate da John G. Avildsen nel 1976 e nel 1979, differiscono da “Toro Scatenato” per la rappresentazione quasi epica dell’ascesa di un atleta agli apici della sua carriera. Scorsese, invece, nell’immortalare la carriera dell’italoamericano del Bronx, sceglie un approccio più vicino al suo quotidiano, quasi come un romanziere verista. Ne racconta le gesta senza esaltarne alcuna, anzi, le sue imprese pugilistiche sono narrate in modo molto più sbrigativo rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare da un film sportivo.
Non si vedono scene di allenamento, anzi, a dirla tutta, Jake è abbastanza refrattario all’applicazione. La solennità della scena in cui egli conquista il titolo mondiale dei pesi medi, deflagra nel ventre molliccio che ha messo su dopo un anno di vita da nababbo. E’ la crudezza della realtà. La vittoria di un uomo chiuso nelle sue idee che crede di averle imposte al mondo. L’apogeo del suo enorme ego che, ben presto, imploderà su se stesso.
Il ventre flaccido del campione del mondo
Jake non è come Rocky. Non ha la stessa tempra eroica, tutt’altro. Le testimonianze reali di LaMotta alla commissione senatoriale del 1960 nelle quali accusò la mafia di combinare la gran parte degli incontri di boxe, decidendo vincitori e vinti in base ai profitti relativi alle scommesse, sono il fulcro narrativo su cui ruota la carriera del protagonista. Seguendo tale linea, Scorsese avrebbe potuto benissimo mettere su una storia di denuncia, ma va oltre: ci impone il controllo mafioso come una “consuetudine”. Un sistema di cui Jake, da uomo vinto qual è, si serve. Non è un eroe che si oppone alla criminalità, semmai protesta quando certe decisioni lo svantaggiano, ma ne è comunque assoggettato.
Non aleggia alcuna aria di mitologia, neppure nella rivalità con il grande Sugar Ray Robinson. Sarebbe stato sin troppo semplice rendere epica quella faida sportiva, ma anche in questo caso Scorsese imbocca una strada diversa: Robinson vince per 5-1 gli incontri contro Jake, il quale non avrà mai la possibilità di replica. Il regista afferma lapidariamente che il toro del Bronx, seppur grintoso ed efficace nonostante uno stile rude, non potrà mai raggiungere il livello dell’aggraziato atleta di colore. Costui, dopo averlo battuto, scompare dalla sua vita, divenendo un affermato campione iridato, e Jake non potrà mai avere l’ultima parola. E’ così che vanno le cose nella vita vera, sussurra Scorsese.
La vita come metafora dello sport
“Toro Scatenato” non è neppure la tipica redemption story sportiva. La riconciliazione con il fratello Joey, un tempo suo protettore, si conclude con un “magari ti telefono“. Le vite dei due hanno ormai preso strade diverse, e non importa se le asce di guerra siano state seppellite, ormai difficilmente i due vivranno così a stretto contatto come in passato.
Il celeberrimo e meraviglioso monologo finale – con la citazione a “Fronte del Porto” (una delle opere di riferimento per la stesura di questo copione) -, lascia poco spazio alle redenzioni. Jake, reduce dai suoi fallimenti, dal carcere e dalla terra bruciata fatta intorno a sé, non si ravvede, bensì accusa tutti coloro che nella vita avrebbero dovuto aiutarlo “un poco di più”. E’ il tracollo di un uomo che non si è mai abituato a se stesso. Una delle chiose più belle di sempre. “Sono il più forte“, ripetuto davanti allo specchio, prima di uno di quei tremendi spettacoli di cabaret, chiude perfettamente un ciclo che non è mai realmente iniziato e mai finito, proprio come la vita di tutti i giorni.
“Sono il più forte, il più forte, il più forte…”
Il film, di fatto, non racconta l’ascesa e il declino di un uomo di sport. Esso narra il quotidiano di un uomo che ascende e declina, mostrandoci perché la sua caduta è, e deve essere considerata logica. Uno sportivo ben lungi dalla caratura eroica conferita a suoi colleghi del grande schermo; egli non affronta una serie di avversità utili a rendere più soddisfacente il suo successo dal punto di vista narrativo, bensì un uomo abituato a battersi con avversari di ogni tipo ma incapace di affrontare se stesso.
E’ proprio per questo che, a parere di chi scrive, “Toro Scatenato” è l’inarrivabile apice della carriera scorsesiana. Il regista dà un calcio in faccia a tutte le regole di trama, annichilisce l’evoluzione del personaggio e non mostra quell’epifania tanto cara a Joyce. Essa non arriverà mai, e lascerà allo spettatore un senso di attesa per un ricongiungimento empatico che non trova compimento. Jake, semplicemente, logorato per la propria carriera andata a rotoli, continua a essere sempre lo stesso uomo rissoso, presuntuoso e ancorato alle sue idee.
Toro Scatenato über alles
Una storia ben lontana dalle moderne biopic, ma che dovrebbe esserne la definizione enciclopedica. Del resto, come si poteva raccontare un pugile tanto grande sul ring quanto ingestibile al di fuori? Una persona che, prima di morire nel 2017, aveva contratto il suo settimo matrimonio. C’erano tante strategie per narrare la sua vita, tuttavia nessuna di esse avrebbe mai potuto raggiungere la stessa forza romanzesca e poetica che possiede questa pellicola. Il film sportivo meno sportivo che si sia. Il film più umano che ci si possa immaginare. Il film dei film di Martin Scorsese.
MANUEL DI MAGGIO
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