Totò, la guerra per essere “Malafemmena”

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Di Federica De Candia

Siamo uomini o caporali? Disse quando si destituì, quasi subito, dalla chiamata nell’esercito. Senza dimenticare che signori si nasce. Siamo tutti fatti di carne, ma solo gli sprovveduti, che mancano di riferimenti storici e di galanteria, sono caduti nello sbaglio di non chiamarlo Principe. Sul titolo non si può trascendere: tre sentenze in tribunale lo autorizzarono a fregiarsi di più onorificenze, tra cui, altezza imperiale. Ma Antonio de Curtis, è soltanto Totò. Per i cuori, nobili d’amore, che l’hanno amato.

Nel rione Sanità, nel 1898, all’anagrafe veniva registrato con il cognome Clemente, preso da sua madre. Ma quando ella sposò il marchese Giuseppe De Curtis, questi lo riconobbe come suo figlio e gli diede il cognome. ‘Sette generazioni’ di blasonata poesia, sembrava vantare Totò. Lui che parla con il cuore, come un analfabeta che riconosce soltanto la parola ‘amore’. La natura, con una precisa intenzione, l’aveva dotato di una faccia non comune; e si era sbizzarrita nella struttura muscolare, dandogli la capacità di allungare e ritrarre il collo, di muovere il bacino e i reni, vivace come un fringuello. Ma Totò resta l’elegante, che con il colletto bianco di una camicia inamidata, i capelli odorosi di brillantina, parlava di quell’amore che “schioppa all’intrasatta dint’ ‘o core”.

Totò, modestamente, Principe

Abitava a a Roma, in via dei Monti Parioli. E, parola di chi lo vedeva al civico 42 di casa sua, non appariva l’allegro comico del cinema. Ma un signore distinto, compito, quasi serioso. Da principe recitava, e si muoveva. Tra un inchino e una piroetta, ti dimostrava tutta la sua disponibilità. Regale la sua pronuncia, non tradita dall’accento di Napoli. “Il napoletano lo si capisce subito da come si comporta, da come riesce a vivere senza una lira“. Pensieri suoi, nobili anch’essi. Un popolano, Totò. Come i Beatles: chiedi chi erano e ti risponderanno. Anche le nuove generazioni hanno giocato con la sua miniatura alla pulcinella. Hanno riso di quella bombetta in testa, nera come le sue occhiaie. Lui che si dedicò con impegno anche a sceneggiature più serie, come quella di Pasolini, “Uccellacci, uccellini“. E si meritò il Nastro d’argento per quella parte di fraticello che parlava con gli uccelli. Cambiò casa romana, si trasferì a viale Bruno Buozzi. Ma il principe partenopeo, nonché imperatore di Capri, non sarebbe stato lui, se non fosse mai stato innamorato…

Quando si esibiva al teatro Odeon, dall’alto di un palchetto, si sporgeva una donna sola, rapita dall’attore Totò. Era una sciantosa, Liliana Castagnola. Nota femme fatale, che lasciava dietro di sé scie di amanti, capaci di duelli e imprese per averla. “È con il profumo di queste rose che vi esprimo tutta la mia più profonda ammirazione. Antonio”. Recitava così il biglietto nel mazzo di fiori che le inviò calato il sipario. Lei leggenda di sensualità, gelosa allo stremo, si suicidò con i sonniferi, dopo una lettera d’addio che le scrisse il Principe. Sentendosene in colpa, Totò volle che fosse sepolta nella sua cappella dei de Curtis, a Poggioreale

Quante Malafemmene ha Totò

Si avisse fatto a n’ato, Chello ch’e fatto a mme..”. Fu per Diana Bandini Rogliani Lucchesini, non per Silvana Pampanini come spesso rivendicato dalla stessa, che scrisse di getto, in un ristorante di Formia, “Malafemmina“. Come testimoniato dal testo depositato alla Siae. Canzone che presentò a l’allora “Festa di Piedigrotta”, di cui molte si attribuirono la dedica, in una guerra all’ultima musa. Dalla relazione con Diana nacque la figlia Liliana. La stessa che raccontò della folle gelosia del padre. Che usava mettere “un pezzo di carta sopra la porta. Se al ritorno, notava che il pezzo era caduto, voleva dire che la porta era stata aperta”. Forse dopo, amò Anna Magnani, forse anche Silvana Pampanini. Ma una sera del 1952, al Jickey Club a via Veneto, incontrò Franca Faldini. Cento rose rosse per lei, scrivendo: “guardando il Suo volto mi sono sentito sbottare in cuore la primavera”.

Franca gli restò accanto fino alla fine, nonostante la differenza d’età, 33 anni. E non volle mai diventare sua moglie sulle carte, per dimostrare all’uomo che amava, che gli era vicina solo per sentimento. Di null’altro aveva bisogno. Così, per una volta, la dichiarazione d’amore, la fece lei a lui. Tragico fu l’episodio che segnò la loro storia, quando all’ottavo mese di gravidanza, mentre stavano guardando “Luci della città” di Chaplin nel cinema allestito in casa loro, lei si sentì male, e il figlio Massenzio morì alla nascita.

E’ la somma che fa il totale

A sera quanno ‘o sole se nne trase e dà ‘a cunzegna a luna p’ ‘a nuttata, lle dice dinto ‘a recchia- “I’ vaco ‘a casa: t’arraccumanno tutt’ ‘e nnammurate”. Qualunque donna vorrebbe essere stata la destinataria, l’ispiratrice di una poesia di Totò. Placido romanziere di almeno milioni di parole, versi, che dedicò ‘alla cosa più bella che inventò il Signore dalla costola di Adamo. “Noi attori siamo solo venditori di chiacchiere. Riconosceva Totò con apprezzata sincerità. Ammettendo che tra oltre cento suoi film girati, pochi erano da salvare. Ma era avanti con l’età, quasi cieco, forse stanco, e i produttori lo volevano in ogni copione. Le platee erano avvinte da lui. Non vi era mai stato bisogno d’insegnargli il mestiere. Recitava d’istinto. Lui non ripeteva le scene da girare, ma veniva lasciato libero d’improvvisare. “Di notte, quando sono al letto, nel buio della mia camera, sento due occhi che mi fissano, mi scrutano, mi interrogano, sono gli occhi della mia coscienza“.

E io pago!”. Nobiltà e avarizia. Furono le costanti nella vita di Totò. Anche le dicerie hanno un prezzo, e hanno rischiato di scalfire l’indole generosa del principe de Curtis. Perché la sua avarizia, era solo da commedia, recitata. Aveva le tasche piene per gli altri! Il portiere del suo palazzo raccontò, che Totò si lamentava delle troppe luci accese. Dei lampadari lasciati illuminati nel condominio. Ma lo faceva ironicamente, come chi fa l’attore anche nella vita. ‘Ristrettezza’ smentita quando alla stazione regalava ai facchini, ben dieci mila lire a valigia. Si leggeva, in una tra le più belle corone deposte al suo funerale, ‘I facchini di Termini‘.

Federica De Candia per MMI e Metropolitan Cinema