“Ogni giorno sono costretto a compiere una serie di scelte su cosa è bene o importante o divertente, e poi devo convivere con l’esclusione di tutte le altre possibilità che quelle scelte mi precludono.”

Oggi è il 13 settembre, l’anniversario della morte di David Foster Wallace che si suicidò a 46 anni. Ogni anno penso che viaggio incredibile sia stato conoscere la sua letteratura.

Di tutto quello che ho letto di David Foster Wallace, purtroppo non tutto, ripenso a “Una cosa divertente che non farò mai più“. Pieno di idiosincrasie e paranoie, ma potentissimo nell’analisi dell’animo umano, DFW ci mostra cosa si cela dietro a passeggeri ed equipaggio di una nave da crociera, attori che mettono in scena uno spettacolo di un’ angoscia devastante: il divertimento. 

Un sentimento che conosco bene ma che non avevo mai affrontato. Non ho mai avuto abbastanza forza per poter ridere del trash, delle miserie del conformismo, della borghesia tossica, della grettezza. Mi fanno star male certi reality che lavorano su questo meccanismo ( e che ultimamente paradossalmente piacciono tanto agli intellettuali) , la consacrazione di certi cliquè mediocri a nuovi valori di comportamento o l’assunzione di certi comici dai tormentoni volgari a simboli dell’innovazione del linguaggio televisivo.

Attraverso la lente dell’ironia tragica, DFW ci fa riconoscere quella sensazione terribile che è posizionarsi ai margini della festa come scelta consapevole.

Un atteggiamento che spesso viene scambiato per snobismo (quando non viene bollato come radical chic), ma che in realtà nasconde il profondo dolore di non sapersi veramente divertire quando tutto ti dice che dovresti farlo. ( Capodanno, le vacanze, i festeggiamenti per la vittoria della nazionale di calcio, la domenica al ristorante, San Valentino, il gioco aperitivo e la baby dance dei villaggi, la gita fuori porta al lago, le feste dei bambini con l’animatore con il microfono …).

[…] Ho visto spiagge di zucchero e un’acqua di un blu limpidissimo. Ho visto in completo casual da uomo tutto rosso col bavero svasato. Ho sentito il profumo che ha l’olio abbronzante quando è spalmato su oltre dieci tonnellate di carne umana bollente. Sono stato chiamato “Mister” in tre diverse nazioni. Ho guardato cinquecento americani benestanti muoversi a scatti ballando l’Electric Slide.

Wallace mi ha insegnato che si può non ambire a partecipare al rito collettivo dell’intrattenimento perché troppo sensibili per non subirlo. Si può mettere una distanza, anche se fa soffrire.

Quella distanza incolmabile con il mondo, è il vuoto che mi lascia David Foster Wallace.

Nel linguaggio dei nostri giorni, disagio forse è seconda solo a resilienza nelle classifica delle parole più abusate. E’ un concetto che è diventato pop, si è svuotato dal malessere ed è diventato cool. Tutta una retorica dell’ansia e della paranoia che, snaturata della sua essenza profonda, scimmiotta malamente la poetica di Wallace e si riduce a una caption di Instagram.
In Wallace l’insuccesso è motore, oggi l’insuccesso è mortale.

Quando sono in affano, penso alla storiella che DFW usò come discorso per la cerimonia delle lauree al Kenyon college, nel 2005:

Ci sono questi due giovani pesci che nuotano e incontrano un pesce più vecchio che nuota in senso contrario e fa loro un cenno, dicendo «Salve ragazzi, com’è l’acqua?» e i due giovani pesci continuano a nuotare per un po’ e alla fine uno di loro guarda l’altro e fa«Ma che cos’è l’acqua?».

Anche quest’anno, grazie, DFW.

Milavagante

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