Gerry, Alex e Kurt (Cobain): la trilogia della morte di Gus Van Sant

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Di Chiara Cozzi

Gus Van Sant è un regista che si è sempre distinto per il suo continuo oscillare tra un cinema pop e uno più indipendente, dimostrando di saper destreggiarsi bene in entrambe le occasioni. Dopo il successo nel 1997 di Will Hunting – Genio ribelle, che gli garantisce una nomination agli Oscar come Miglior regista, e il discusso remake shot for shot di Psycho, il regista lavora, a partire dal 2000, alla trilogia della morte. Definita così dai critici, i tre film a carattere sperimentale che la compongono riflettono sulla solitudine, la paranoia e, ovviamente, la morte e il conseguente affrontarla, in maniera del tutto personale.
Un comune denominatore per tre storie comunque diverse tra di loro, che riescono a fronteggiare bene sia le proprie personalissime odissee sia le piaghe sociali che affliggono ancora alcuni paesi.

Dentro la trilogia della morte

Novantatré minuti di silenzi

Il primo film del trittico è Gerry (2002), una storia che si scandisce attraverso i silenzi e che progredisce tramite l’umore dei protagonisti, due amici che, spinti verso una meta ignota, si smarriscono nel deserto. E proprio il luogo, la cui la vasta e vuota immensità viene immortalata con splendide panoramiche, sarà la rovina dei personaggi.
Il loro proseguire per quelle lande desolate, a testa bassa, i respiri e i passi a cadenzare il ritmo della storia, rendono il film surreale e austero e lo spettatore paranoico e inerme, alle prese con un terribile horror vacui.

Una scena tratta da "Gerry" - © web
Una scena tratta da “Gerry” – © web

L’elefante nella stanza

Un anno dopo Gus Van Sant dirige Elephant, considerato dalla critica il capolavoro del regista, premiato con due Palme d’oro a Cannes. Il titolo allude alla metafora dell'”elefante nella stanza“, indicante un problema noto a tutti ma che nessuno ammette o affronta, e si riferisce in questo caso al problema della libera circolazione delle armi negli Stati Uniti. Il film, infatti, si ispira al massacro della Columbine High School del 1999, nel quale due ragazzi uccisero a colpi di arma da fuoco 12 studenti e un insegnante, e ne ferirono altri 24, per poi togliersi la vita all’interno dello stesso edificio.

Il film si snoda nell’arco di una giornata ed è presentato attraverso i diversi punti di vista di più personaggi. Proprio per questo alcune scene si ripetono, ma appunto riprese da angolazioni differenti, ed è interessante notare come nessuno dei personaggi sia mai ripreso frontalmente, con la sola eccezione di Alex, l’unico personaggio che sopravvive alla sparatoria. La ragione di questa scelta registica l’ha spiegata lo stesso Van Sant, il quale non ha voluto riprendere i volti delle vittime proprio per evitare un’immedesimazione del pubblico; ciò vuole indicare la facilità e la rapidità con cui ci si dimentica delle vittime delle stragi.

Una scena di "Elephant" - © web
Una scena di “Elephant” – © web

Un’altra costante registica è l’utilizzo del piano sequenza che segue da dietro o di lato i personaggi. Lo spettatore viene reso onnisciente ma allo stesso tempo distaccato e quasi indifferente agli eventi, che a volte risultano noiosi e fin troppo ordinari, come alla fine è una semplice giornata a scuola.
Gli eventi concitati relativi alla sparatoria sono invece veloci ed incalzanti, proprio ad indicare l’improvvisa interruzione della routine e l’inserimento in una dimensione extra-ordinaria.

Pace, amore, empatia

Una scena di "Last Days" - © web
Una scena di “Last Days” – © web

Del 2005 è invece Last Days, ultimo film che compone e completa la trilogia della morte.
Gli ultimi giorni a cui si riferisce il titolo sono quelli di Kurt Cobain, leader della band grunge Nirvana, alle prese con la sua spirale di delirio e perdizione prima del suicidio, avvenuto nel 1994.
Il film manca di una trama vera e propria e l’ordine degli eventi è spesso alterato o semplicemente non spiegato, per meglio rappresentare lo stato di alterazione del protagonista. Anche qui ricorrono il piano sequenza e le riprese di un paesaggio naturale in cui ci si perde, nonostante sia estremamente familiare (il bosco attorno alla casa del protagonista).
Una perdita del sé tuttavia estremamente consapevole del destino irreversibile a cui sta andando incontro; un orrore della morte che porta alla paranoia e alla scelta più estrema: togliersi la vita prima che siano i propri demoni interiori a farlo.

Chiara Cozzi

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