“Ma li Re Maggi arriveno? – E’ impossibbile perchè nun c’è la stella che li guida; la stella nun vò uscì: poco se fida pè paura de quarche diriggibbile…“. Cantava così Trilussa il suo Natale di guerra. Durante il primo conflitto mondiale, anche l’asinello è reclutato sul campo di battaglia a trasportar mitraja. Niente ha risparmiato la sua voce di poeta. In storie, sonetti, divenuti proverbi, tra ‘Ommini e bestie’, regalati a Roma.

Natale de Guera di Trilussa

Sarà questo Natale 2022, non molto differente da quello del 1914, anno della grande guerra. ‘Nun è fenita‘, direbbe lui oggi. Come quando esortava a una ricostruzione della natività di Gesù, che provenisse dal profondo del cuore: “Ma che li fate a fa? Si poi v’odiate, si de st’amore non capite gnente…”. Carlo Alberto Salustri, in arte Trilussa, conosce la sua Roma a memoria. Ne sa tutte le asperità, le dolcezze, i dolori. Non è incantato da magnificenza e orpelli. Ma s’ispira a ‘ ‘na certa Roma‘, quella bassa, popolare, dal sapore tradizionale, dalle espressioni laiche. Che trova anche nella sua poesia la misura umana. La quotidianità, è maestra, compagna fedele. Il suo occhio, si posa sulle raffigurazioni sparse nella capitale, che sono a portata di tutti. Nei graffiti, stemmi, insegne. Per scovare le tracce lasciate dall’anonimo amanuense, più che dal capriccio dell’artista.

Con la sua invettiva, con l’ironia maliziosa, riesce sempre a svelare la verità, dietro la menzogna. Sotto il suo sguardo, non la faceva franca neanche il ‘pizzicarolo‘: che con la tanto discussa ‘carta oleata’ da droghiere, incartava la merce decurtandone il peso netto. Per Trilussa, un tempo, s’imparava dall’insegna: Ma la mejo bottega è lo spezziale, che tiè esposti in vetrina a pennellone, tre lavativi, e sotto l’iscrizzione: ‘Preferite er prodotto nazzionale’ “. Nel sonetto di “Paesetto“, narra della ‘farmacia della natura’, ovvero degli erboristi, o semplicisti come si usavano chiamare. C’era in via Pozzo delle Cornacchie, l”Erboristeria Cimino‘ vecchia di due secoli, o ‘l’Antica Erboristeria Romana’ in via di Torre Argentina 15. Ma, capitava che la puritana società, usasse le insegne da copertura. Per nascondere il vero commercio sotto un altro nome.

Roma in rima

Trilussa ci informa del misfatto, del trucco, attraverso la poesia “Cammera ammobbijata“. La storia, a lui capitata, andò così: la sora Pia, compiacente intermediaria, gli disse di passare alle sei a via dell’Orso, per trovare “un bocconcino proprio da poeta“. Camere in affitto per 10 lire l’ora, “tutto compreso” recitava l’insegna innocente. Ecco la chiave. Vada pure franco; troverà scritto su la porta mia ‘Pia Sbudinfiori, cucitrice in bianco’. Entri e l’aspetti“. Trilussa cercava qualcosa di diverso, e, compreso il doppio senso che lì si celava, fugge via. Specificando, doverosamente, nella sua ode “la bella donna che non viddi mai..”.

“..Ar posto der lumino che s’accenneva pe’ l’avemmaria, cianno schiaffato un lume d’osteria cor trasparente che c’è scritto: Vino. Dalla poesia “Er cieco“, un quadro della vecchia Roma, quando esistevano le Osterie con ancora la lettera “h” nell’insegna. Trilussa, in questi luoghi frequentati dalla gente del popolo, v’immaginò il pranzo conciliatore tra romani e sabini, nel poemetto “Il ratto delle Sabine“: “Bottega! otto caffè rumme a la tazza! Voi sora sposa come lo pijate?-Io? cor chifanio…- E voi, bella ragazza?-Io me lo pijo come me lo date…- Cammeriere! Sei sordo? Otto cimotti! Sbrighete! viè’ a servi’ ’sti patriotti!…“. La violenza, fatta di conturbante erotismo, nell’atto perpetrato dai Romani per procurarsi le mogli e assicurarsi la prosecuzione della stirpe, è rivissuto dal poeta tra una “fojetta” (il mezzo litro alla romana), e un “chirichetto” (il quinto di un litro, così chiamato per la sua forma di ampolla somigliante a quella nella Messa). C’era anche la più piccola delle misure, il decimo di litro detto “sospiro” o “sottovoce” (perché si sospirava nel richiederlo, in quanto molto piccolo, vergognandosi di non disporre di maggior denaro).

Un coperto di cultura

La “fraschetta” era l’insegna: un mazzo di rami di arbusto con tante foglie, che invitava i viandanti alla bevuta. Non c’era il neon, gli arredi non erano d’avanguardia, e l’amicizia univa i tavoli degli avventori, insieme a sfilatino burro e alici. Pur possedendo in casa 2500 libri, Trilussa era pur sempre un uomo del popolo, che stava in mezzo la gente, capace di frequentare anche osterie malfamate. Dopo la guerra, ormai vecchio e povero, non ha mai rinunciato ad andare a mangiare nelle osterie. Non avendo soldi, pagava secondo l’usanza degli artisti dell’epoca: ognuno faceva moneta con la propria attitudine, così l’arte ‘pagava’ e ‘ripagava’. Dopo aver mangiato, lui scriveva una poesia su un pezzo di carta e la regalava all’oste. I suoi sonetti erano spesso accompagnati da disegni. Il piacere di vivere, trovava sfogo naturale, in versi, rime baciate; intriso e lurido come quel pezzo di tovaglia stracciata. Aspro, come l’amaro al mattino, di certe bevute notturne.

C’è chi sente dentro le poesie di Trilussa una certa amarezza. Chi la confonde con la nostalgia. Ma la loro essenza, mescolata all’amore, come l’acqua al vino, e i Vangeli al profano, arriva sempre. Trilussa dice che “Er Presepio“, “senza l’amore è cianfrusaja che nun cià valore”. Anzi, il menestrello, stavolta ha dato voce a Gesù Bambino.

Federica De Candia Seguici su Google News