“C’era una volta in America“, nel nostro immaginario collettivo, rimarrà per sempre come quanto di più hollywoodiano sia stato proposto dal cinema italiano. Diretto da Sergio Leone e uscito nel 1984, “C’era una volta in America” si è imposto, in questi ultimi trentasei anni come una sorta di monumento, capace di far breccia nei cuori degli italiani di tre diverse generazioni. E noi di Metropolitan, poiché tale titolo è emerso vincitore dal contest indetto una settimana fa, abbiamo deciso di dedicargli questo focus.
Quarant’anni di crimine
Gli anni ruggenti
David “Noodles” Aaronson (Robert DeNiro) è un giovanotto cresciuto nella miseria del ghetto ebraico di New York. Dopo aver conosciuto Max Bergovicz (James Woods), che ben presto diviene il suo migliore amico, insieme alla sua cricca di sodali formata da Patrick “Patsy” Goldberg, dal piccolo Dominic e da Philip “Cockeye” Stein, cerca di farsi strada nel mondo della criminalità organizzata durante gli anni del Proibizionismo. Dopo aver accoltellato il suo ex-datore di lavoro Bugsy Siegel, assassino di Dominic, Noodles passa dieci anni in carcere.
Il Proibizionismo
Uscito da Sing Sing nel 1932, riprende la sua attività al fianco di Max e soci i quali, nel frattempo, si sono affermati come una rinomata banda di gangster a New York. A fare da contraltare al successo negli affari, però, il cuore di Noodles è rapito dalla bella Deborah (Elizabeth McGovern). La ragazza, nonostante una malcelata attrazione nei suoi confronti, non può accettare di convivere con un gangster, soprattutto per via delle sue aspirazioni da attrice d’opera che la porteranno al successo. Con la fine del Proibizionismo (dicembre 1933), Max è intento a progettare un ultimo colpo, ma Noodles, poco fiducioso della riuscita, decide di allertare la polizia sperando che fermi gli impeti dell’amico. Si rivela una strage, con i suoi tre amici che muoiono. Almeno così sembrerebbe.
Il senatore Bailey
Nel 1968, infatti, dopo anni di fughe, chiamato da un certo senatore Bailey, Noodles scoprirà che il suo migliore amico lo ha tradito, sposando la sua amata Deborah e cambiando la propria identità. Costui gli chiede di ucciderlo per vendicare l’onta, ma Noodles preferisce continuare a credere che Max sia davvero defunto nel 1933 e lascia il senatore in balia del popolo che vuole la sua testa.
C’era una volta… in America
Inevitabilmente, quando si pensa a Sergio Leone, si è portati ad associarlo agli spaghetti-western degli anni Sessanta, in particolare alla “Trilogia del Dollaro” (“Per un pugno di dollari“, “Per qualche dollaro in più” e “Il buono, il brutto e il cattivo“), film di culto che fecero scuola per l’epoca. Eppure la grandezza del regista romano la si poté ammirare nella successiva “Trilogia del Tempo“: “C’era una volta il West” e “Giù la testa” rappresentarono appieno la stagione del “western revisionista“, ponendosi come perfetta chiosa di un ciclo che aveva dato tutto. Dalle parti di Roma, una volta terminato “Giù la testa”, si vociferò che Leone fosse interessato a mettere in scena un film sui gangster, ripercorrendo l’epopea degli anni Trenta e successi quali “Piccolo Cesare“, “Scarface – Lo Sfregiato” e “Nemico Pubblico“. La notizia giunse a Hollywood e i produttori della Paramount gli proposero di dirigere un film tratto da un romanzo uscito qualche anno prima: “Il padrino“, ma Leone rifiutò.
Mano armata
A posteriori, forse, un po’ si penti di non esserci stato lui dietro a uno dei più rinomati film di sempre, ma proseguì per la sua strada, deciso a concentrarsi su quello che doveva essere il suo omaggio al cinema dei gangster anni Trenta. Poi, tra le sue mani, arrivò un libro: “Mano Armata“, autobiografia di Harry Grey, pseudonimo di Harry Goldberg, gangster ebreo vissuto negli anni del Proibizionismo. Fu la svolta per la sua carriera, rimasta in silenzio per ben tredici anni.
Amicizia, amore e polvere da sparo
Sebbene il romanzo di Grey fosse molto diverso da quanto Leone avrebbe poi tradotto sul grande schermo, i racconti confluivano negli stessi temi trattati. Un’opera elegiaca, quasi nostalgica che, parimenti a “C’era una volta il West“, tentava di commiatarsi con malinconia dal genere trattato. L’amicizia dei due protagonisti, anche a scapito degli interessi economici sempre più preponderanti; l’amore per la bella Deborah (Dolores nel libro), violentata da un Noodles sempre più immerso in quel mondo, nonostante non se ne sentisse parte a tutti gli effetti. Sono tutti temi universali, ben lontani dalla categorizzazione “di genere” che si potrebbe additare al film.
Il realismo si fa poesia
Laddove “Giù la testa” era un’opera filosofica, dove il regista Leone parlava al pubblico in un modo più “autoriale“, in “C’era una volta in America”, si assiste a un ampliamento dei temi, a un’universalità degli stessi. La società psicotica, cruda e violenta di “Giù la testa”, in “C’era una volta in America” diviene reclusa nei suoi schemi e nelle sue categorizzazioni. Il rifiuto di Deborah nei confronti di Noodles, per poi sposarsi con il suo migliore amico, suona tanto triste quanto reale. La ragazza aveva sempre amato Noodles, ma non poteva accettarne la vita e ha, in seguito, preferito la via più facile della vita nella società “bene”. Favorita dal marito e dal successo come attrice d’opera.
Le scene di dialogo tra i due, così come quelle finali tra Noodles e Max, testimoniano la visione poetica di Sergio Leone, pronto a mostrarci come i valori universali d’amore e amicizia non abbiano più spazio in un mondo sempre più categorizzato e schematico. Un mondo dove il crimine e la politica si confondono – citando “Il padrino – Parte II“, “Siamo due facce della stessa ipocrisia” -. Un mondo nel quale, l’unica salvezza alla reale perdizione di se stessi, è quella di conservare quei valori dentro di sé. Magari fingendo che il tuo migliore amico non ti abbia lasciato un senso di colpa che perdura da trentacinque anni.
C’era una volta Ennio Morricone
Ma un film come “C’era una volta in America” non lo si può giudicare solo per quanto si veda sullo schermo. Quelle quasi quattro ore di pellicola non sarebbero mai state le stesse senza le meravigliose note del maestro Ennio Morricone. Il loro binomio inossidabile non poteva che produrre il commiato perfetto per Leone (morto nel 1989). La colonna sonora di “C’era una volta in America”, rimane – forse – la composizione più maestosa di Morricone.
Un vero peccato che il film sia stato riscoperto solo recentemente negli Stati Uniti. Difatti, all’indomani della sua uscita, in USA optarono per un montaggio di un’ora e mezza, con drastici tagli che riscrissero totalmente la storia. L’edizione statunitense, di fatto, uccise il film agli occhi del pubblico a stelle e strisce, cui, paradossalmente, Leone puntava più di tutti. Un’elegia dedicata al mondo dei gangster. Una poesia di una brutale bellezza.
MANUEL DI MAGGIO
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