Due anni dopo il premiato “Get out” l’attesa per questo “Us” era comprensibilmente alta. Che l’horror politico potesse aver trovato un nuovo, credibile esponente, è un’eventualità che Jordan Peele aveva già fatto considerare all’uscita del suo esordio del 2017.
Pellicola coraggiosa, brillante e provocatoria ha rappresentato una vera boccata d’ossigeno per un genere condannato ormai da lustri a ripetere pedissequamente se stesso. Così come alto si è rivelato il livello della nuova sfida di Peele, che non si è più accontentato di mettere in scena una vicenda specifica rappresentativa di una condizione generale ma ha puntato il mirino direttamente alla ritratto globale e collettivo, in qualche modo definitivo. “Us”, noi.
“Us”: la sinossi
USA, 1986: in piena reaganomic gli Stati Uniti vivono il capitolo terminale del sogno americano e organizzano la Hands Across America, una catena umana lungo tutto il territorio nordamericano che promuove una raccolta fondi per i più sfortunati. Adelaide ha nove anni e una sera, al parco divertimenti lungo lo shore di Santa Cruz, sfugge alla vista dei genitori e si avventura all’interno della casa degli specchi. Salta la corrente e Adelaide inizia ad agitarsi. Tutti gli specchi riflettono la sua immagine. Tutti meno uno. Che la aggredisce al collo. Buio.
Giorni nostri. Adelaide è adulta e con la famiglia decide di passare il periodo delle vacanze nella casa dei genitori, quella che da sul boardwalk di Santa Cruz, dove tanti anni prima ha vissuto quella traumatica esperienza di fatto mai risolta. Una notte quattro misteriose sagome appaiono sul loro vialetto di casa. Hanno una fisionomia fin troppo conosciuta. E intenzioni tutt’altro che pacifiche, che sembrano avere a che fare con una tanto attesa quanto definitiva resa dei conti.
Pagheremo caro, pagheremo tutto
Peele sceglie di alzare il livello anche in senso più strettamente strutturale, narrativo. Dove il discorso politico dietro a “Get Out” era immediato e facilmente comunicabile, in “Us” è decisamente più complesso, stratificato e necessario di più visioni per essere accolto a pieno. “Siamo americani” dice Red, il doppelganger della protagonista Adelaide, una Lupita Nyong’o (“12 anni schiavo“) eccezionale nella doppia, antitetica interpretazione dell’”americana di sopra” e della sua furiosa controparte del mondo “di sotto”. Peele ha il talento e la maestria per giocare con grammatiche diverse e scherzare con le aspettative e le previsioni dello spettatore. E lo fa sistematicamente. “Us” sembra una classica home invasion, ma è subito chiaro quanto non lo sia. Vuole forse puntare i fari sulle responsabilità della nuova black middle class? Dedica lo stesso, brutale trattamento all’ insopportabile famiglia bianca di Josh e Kitty Tyler (Elisabeth Moss).
Gli altri americani potrebbero essere convenzionali, lucidi zombie vomitati dalle viscere della terra ma dietro alla loro brutalità esiste un consapevole e sempre più evidente disegno collettivo. Sono qualcosa di ben più inquietante, concreto e immanente. Come ci ricorda il senzatetto predicatore con il suo rimando all’undicesimo versetto del capitolo undici del libro di Geremia (il palindromo 11: 11) “Perciò dice il Signore: Ecco manderò su di loro una sventura alla quale non potranno sfuggire. Allora leveranno grida si aiuto verso di me, ma io non li ascolterò”. E’ la parola di Dio rivolta agli adoratori di falsi idoli. Un’ombra tutt’altro che allegorica, la controparte che ognuno, in quanto membro produttivo e consumatore del sistema capitalista, proietta e lascia dietro di sé. E con essa, gli avanzi, i resti informi, afoni, abbruttiti su cui il sistema produttivo si regge. Basta un attimo di innocua, legittima distrazione per finire dall’altra parte della barricata a condividere agi, vizi, virtù e mozioni della propria condizione e non voler più guardare indietro. Una volta veniva chiamata lotta di classe. Vero Adelaide/Red?
Andrea Avvenengo
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