Dante e Virgilio nella VII Bolgia, il centauro Caco e i ladri di Firenze

Canto XV, Inferno. PhotoCredit: The Paris Review.
Canto XV, Inferno. PhotoCredit: The Paris Review.

Per il Dantedì di oggi, ci occupiamo del Canto XXV dell’Inferno dantesco. Nel corso della narrazione, Dante e Virgilio giungono alla VII Bolgia, dove vengono puniti i ladri di Firenze.

Il centauro Caco: demone o peccatore dannato?

Siamo giunti alla mattina di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300, verso mezzogiorno. Dante e Virgilio si trovano ancora nella VII Bolgia, dedicata ai ladri. In particolare, in questo momento della cantica, i due viaggiatori incontrano un ladro della mitologia classica. Stiamo parlando di Caco, famoso per aver tratto in inganno Ercole e avergli sottratto la mandria prelevata a Gerione. Per questa ragione, l’eroe lo avrebbe ucciso nel suo antro, strangolandolo (secondo Virgilio) o a colpi di mazza (secondo Ovidio). Qui, Dante lo descrive come un centauro, con sulla groppa una gran massa di bisce e un drago con le ali aperte che vomita fiamme contro chiunque incontri.

Non è chiaro perché il poeta faccia di lui un centauro, dal momento che il Caco mitologico non era assolutamente associato a queste figure: è Virgilio a spiegare che non si trova coi suoi fratelli per via del furto fraudolento che commise ai danni di Ercole. Un’altra particolarità della sezione dedicata a questo personaggio è il fatto che non risulta chiaro se Caco sia un demone incaricato di punire i dannati o, al contrario, un peccatore stesso. Dopotutto, è riconosciuto dalla tradizione letteraria come un assassino e un ladro. Specifichiamo, però, che Caco subentra nel racconto, furioso, con l’intenzione di punire il dannato Vanni Fucci, precedentemente incontrato dai due poeti (Canto XXIV).

L’incontro con i tre ladri fiorentini della VII Bolgia

Mentre sta per concludersi la discussione tra Virgilio e il centauro, si avvicinano quattro dannati. Dante non li riconosce ma comprende che si tratta di tre ladri fiorentini. Ed ecco che accade qualcosa di cui neanche il poeta riesce a capacitarsi e che, a stento, riesce a spiegare al lettore. I due compagni di viaggio, sorprendentemente, assistono alla punizione con cui sono stati condannati i ladri: la pena è quella di subire una metamorfosi continua, che avviene attraverso l’unione dei dannati con un serpente. Soltanto uno di loro riuscirà a salvarsi dalla metamorfosi, Puccio Scanciato.

G. Doré, Le metamorfosi dei ladri. PhotoCredit: Divina Commedia, blog.
G. Doré, Le metamorfosi dei ladri. PhotoCredit: Divina Commedia, blog.

La metamorfosi di Agnello Brunelleschi, di Guercio e di Buoso Donati 

Il primo a subire la metamorfosi è Agnello Brunelleschi. Questi all’improvviso viene aggredito da un viscido serpente che inizia a contorcersi lungo tutto il suo corpo. Quindi i due esseri si scaldano e si fondono in una sola creatura, con le braccia umane e i piedi posteriori del serpente che diventano due membra, mentre tutte le altri parti del corpo assumono un aspetto mai visto. Il mostro è diventato qualcosa di ben diverso dai due esseri originari e se ne va con passo lento.

Subito dopo è il turno degli altri due dannati. Uno di loro, Buoso Donati, è già serpente. I due, dunque, mescolandosi insieme, si tramutano rispettivamente da uomo in serpente e da serpente in uomo. 

Insieme si rispuosero a tai norme, 
che ’l serpente la coda in forca fesse, 
e il feruto ristrinse insieme l’orme.                               

Le gambe con le cosce seco stesse 
s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura 
non facea segno alcun che si paresse.                      

Togliea la coda fessa la figura 
che si perdeva là, e la sua pelle 
si facea molle, e quella di là dura.

L’autore premette alla descrizione le scuse al lettore se scriverà qualcosa di incredibile e alla fine si scuserà ancora se la sua penna ha trattato in modo impreciso e poco chiaro qualcosa di assolutamente mai visto, con un atteggiamento che non è di falsa modestia ma anticipa il tema della inesprimibilità della visione che sarà dominante nel Paradiso, proprio a causa dell’altezza sproporzionata delle cose vissute.

Martina Pipitone