
‘’Un gioiello dimenticato della moda italiana’’, così l’imprenditore Rachid Mohamed Rachid ha definito Walter Albini all’annuncio dell’acquisizione degli archivi storici del designer italiano (inattivi da quasi 40anni) da parte del fondo Bidayat, con la promessa di rilanciare il brand e riposizionarlo sulla scena internazionale come ‘’un diamante da lucidare’’.
Un nome noto agli storici della moda, ai figli della Milano degli anni ‘60 e ‘70, ma del tutto sconosciuto alla nuova generazione, ignara che per lui vennero coniati termini come ‘’stilista’’ e del suo ruolo di prepulsore del pret-a-porter italiano. Un’eredità importante valsa un investimento milionario a Rachid il quale non è nuovo alla moda, considerando che ricopre già il ruolo di AD di Valentino e Balmain per la società Mayhoola Investments. Ma a differenziare Albini ed il suo restauro creativo dalle altre proprietà della corporate è l’impresa: riuscire a riprendere una storia interrottasi 40anni fa, alla scomparsa del suo fondatore. Ma questo non sembra spaventare il gruppo d’investimento che prevede un guadagno già dal 2025, precisamente un anno nuovo dopo il debutto della prima collezione, pianificato per febbraio 2024.
Chi è stato Walter Albini

Ma chi è Walter Albini? E perchè tutto questo clamore dietro la riesumazione del brand? Sarebbe riduttivo definirli come designer perché fu molto di più. Illustratore, progettista ed in fine stilista, il suo percorso creativo è stato un’ascesa nelle arti visive, dall’immagine illustrata alla moda, che gli ha permesso di collaborare con nomi quali Chanel, mito di un giovanissimo Albini, Krizia, e Etro. Un dandy moderno, estimatore delle arti ed attento osservatore della realtà, la sua personale realtà che si tradusse in un fantasioso mondo animato da amori sbagliati e balli fastosi di una Milano notturna del 1960.
La storia: dagli albori alla nascita del pret-a-porter
Nato a Busto Arsizio il 3 Marzo 1941, Albini cresce in una famiglia agiata che lo indirizza da subito verso gli studi classici. Si distacca dai piani familiari quando diviene il solo ragazzo a frequentare l’Istituto d’Arte, Disegno, Moda di Torino che lascia subito dopo gli studi, a 17 anni, per lavorare come illustratore per alcune riviste nazionali, trasferendosi a Roma. Dopo un breve periodo di 4 anni nella città romana si sposta a Parigi dove incontrò Chanel: un incontro casuale che stravolse la vita di Albini, il quale da allora capì, per la prima volta, di non voler più solamente disegnare ma di voler progettare una propria collezione sotto il proprio brand. Da lì si cala nella scena parigina frequentando gli atelier di Maimè Arnodin e Denise Fayolle, arrivando a realizzare i primi abiti per Gianni Baldini nel 1963. Del periodo vissuto a Parigi ricorderà sempre le nottate trascorse in atelier che lui stesso definì come le ‘’notti dove imparai a conoscermi’’. Furono gli anni di formazione dove l’identità artistica androgina di Albini si stava costruendo sotto l’influenza delle culture giovanili londinesi come il grunge e i mod. A convincerlo a tornare in Italia sarà Krizia, che lo porta con se a Milano come designer per la maglieria del brand, un lavoro di tre anni che lo portò a conoscere lavorazioni, tagli e costruzioni nuovi condividendo lo studio con un giovanissimo Karl Lagerfeld. In quegli anni collabora saltuariamente anche con altri nomi ormai scomparsi come Cadette e MisterFox, senza perdere l’occasione di sperimentare negli importanti studi creativi di Etro, dove impara a lavorare le stampe ed a disegnare gioielli. Fino ad arrivare ai primissimi anni 70, quando decise di mettersi in proprio, presentando le prime creazioni nella Sala Bianca a Firenze, grazie al sostegno di alcune amicizie. Un ambiente istituzionale, una tappa obbligatoria per chi, come lui, ambiva a farsi conoscere al più ampio pubblico ma dove resistette poco, desideroso di tornare a Milano, che in quegli anni si stava imponendo come nuova capitale della moda. Al suo rientro in città Albini era già un nome noto alla stampa che lo imparava a conoscere di collezione in collezione ma con la quale instaurò un rapporto infelice fatto di rare interviste e saltuarie dichiarazioni. D’altronde ‘’non sono io a parlare, l’abito dialoga autonomamente’’ sosteneva il creativo: una posizione incomprensibile per la critica di giornale che cercò sempre di sapere di più di quanto l’abito potesse comunicare. Nel 1971 Walter Albini debutta ufficialmente a Milano, nella sede della Società Giardino a palazzo Spinola con una collezione che ridisegna la figura femminile alleggerendola. Ad aderire a questo distacco dagli spazi di Palazzo Pitti furono anche Caumont, Ken Scott, Missoni e Trell. È l’atto che sancisce la nascita pret-a-porter italiano. La moda da allora non fu più solo per pochi ma si avvicinò alla massa.
Albini, l’innovatore dell’abito
Precursore dei tempi moderni, inventò i concetti di brand image e storytelling come strategie di comunicazione volte a guidare il pubblico in un’esperienza totalizzante, che permetteva a chiunque di riconoscere un suo abito immediatamente. A renderlo noto, poi, furono le sue creazioni ‘’unimax’’ del 1970, con le quali annullò le diversità tra guardaroba maschile e femminile realizzando modelli di tagli uguali per entrambi i sessi, anticipando il contemporaneo ‘’genderless’’. Un’innovazione importante che portò Albini ad allontanarsi dall’atelier dove il capo è su misura, per avvicinarsi alla catena produttiva del pret-a-porter. Fu proprio lui ad introdurre la moda nel tessuto sociale grazie ad una produzione seriale che permetteva a chiunque di riconoscersi e vestirsi dei valori del brandi: inclusività e sperimentazione. Tra le sue collezioni più note quella intitolata ‘’Le spose e le vedove’’ è quella che lo distinse dagli altri. Otto modelle in rosa (le spose) ed otto in nero (le vedove) riproducono una società giudicante che associa la donna al suo ruolo di ‘’accessorio dell’uomo’’. Per Walter Albini la donna rimase sempre il soggetto dell’indagine creativa alla quale regalò nuovi capi da aggiungere al guardaroba: lo chemisier, la giacca-abito, i pantaloni larghi e i bermuda (divenuti poi shorts), i sandali a due tonalità e le maglie velate, tutte invenzioni con le quali emancipò la donna solamente vestendola.
Quando la sfilata diventa spettacolo
Ogni parte contribuiva a consolidare un immaginario opulento che si reggeva sul ricordo di tempi lontani, memore dei fasti degli anni 20, del cinema americano, e della cultura orientale, contaminato dal vissuto personale, che accompagnerà sempre i suoi show-spettacolo. Spettacolari perché, come ricorda la scrittrice Anna DeVitis, non erano comuni sfilate ma performance interattive che incuriosivano e coinvolgevano lo spettatore, portandolo a divenire parte di un quadro comune, che spesso narrava la società del tempo. Nel 1967, all’uscita della collezione Gerrilla Urbana posò davanti un’industria, indossando la divisa di alcuni movimenti politici, in forma di protesta e vicinanza ai manifestanti che, in quegli anni, si battevano per nuovi diritti. La FW1973, al contrario, è un’omaggio alla città galleggiante: Venezia. Ancora una volta riscrisse le regole dello show che divenne un tutt’uno con piazza San Marco, rendendola la cornice ideale per quegli abiti che attingevano per colori e stampe all’architettura del luogo. Questo era possibile grazie allo studio delle location, alla ricerca di nuove scenografie che dialogassero con gli abiti, e Walter Albini in questo era esperto, merito anche dei suoi continui viaggi che lo portarono in Europa, America ed Oriente. Pochi anni dopo, nel 1977, presenta la collezione FW1978 negli spazi della Galleria Eros, che per l’occasione accoglie sculture in ceramica dalle forme sessuali esplicite a sostegno del tema della collezione: il corpo. Incuriosito da tutto quello che un libro di storia, arte e fotografia potesse offrire, per Albini lo show è come una mostra fotografica dove ogni abito suggerisce un ricordo, un’immagine. Come disse in un’intervista per Vogue datata 1978:
‘’per me ogni abito ha una storia. Ogni abito ha un tempo, una persona, un luogo ed un ruolo come in un teatro. Per cambiare abito si deve cambiare attitudine, e entrare in una parte. Ogni volta, ogni stagione, ogni collezione’’.
Verso la scomparsa
La notorietà ottenuta in Italia era però imparagonabile con quella estera, inalzato dalla stampa che lo riempì da subito di onori ed onorificenze. Ma se da Londra a Parigi il nome di Walter Albini era riconosciuto al pari dei grandi couturier come Yves Saint Laurent, sulle pagine dei giornali italiani era spesso tralasciato, volutamente dimenticato, e complice di questo fu il rapporto conflittuale con i media che non lo videro mai di buon occhio per via del suo comportamento irriverente ed ostico a qualsiasi forma di critica. E dopo vari scontri con le firme principali della carta stampata dell’epoca, nel 1980 decise di riempire le mura cittadine con cartelli che ‘’invitavano’’ la stampa a non presentarsi ai suoi show, servendosi di un’astuta ironia che però non fece altro che creare argomenti di dibattito popolare, portando Walter Albini a scomparire non solo dalle riviste ma anche dalla memoria collettiva, fino alla sua morte nel 1983 a soli 42anni.
La riscoperta e i piani futuri
Ora la creatività del brand si riattiva, e con questo il suo nome, grazie a Barbara Curti, figlia della collezionista Marisa Curti, che apre l’archivio di famiglia a Rachid e Bidayat, con i quali si impegna a ridare splendore al nome di Albini, facendolo conoscere ai più giovani. Non resta che individuare il nuovo direttore creativo capace dell’impresa, e secondo alcune indiscrezioni potrebbe essere Alessandro Michele, il quale, da quando ha lasciato Gucci, è il nome più ambito, anche per via di alcune dichiarazioni di stima artistica rilasciate da Michele anni fa, che mai nascose l’ammirazione per il lavoro dello stilista. Ancora niente di confermato, il CEO sostiene che la priorità sia il recupero del brand e da questo ricostruire la sua identità, poi si vedrà. Intanto non si può far altro che rileggere le pagine di storia e prepararsi ad un revival 70s che si preannuncia entusiasmante.
Luca Cioffi
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