Zimbabwe: la fine di un era

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Di Redazione Metropolitan

Alla fine il novantatreenne presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe ha gettato la spugna annunciando le sue dimissioni nel pomeriggio. Epilogo inevitabile di una presidenza durata per ben 37 anni, destituita in sette giorni.

L’ormai ex presidente aveva fatto la sua prima apparizione (dopo i quatto giorni di “custodia”) Venerdì scorso all’Università di Harare. In quella occasione aveva confermato la sua inadeguatezza addormentandosi a più riprese e applaudendo a casaccio. Non che ci fosse bisogno di una conferma ma l’apparizione di Venerdì non ha fatto altro che mettere in mostra di fronte alla popolazione il leader in tutta la sua debolezza. Il popolo non fa attendere la sua risposta, che si è tradotta in una manifestazione oceanica Sabato per le strade della capitale. Manifestazione pacifica, anche se effettivamente una protesta con l’appoggio dell’esercito non poteva che esserlo. La sfiducia da parte del suo stesso partito ha dato il colpo di grazia al “vecchio Bob”.

 

L’attuale partito di potere in Zimbabwe non è altro che una costola di quella Unione Nazionale Africana di Zimbabwe(formazione comunista-socialista vicina sia a Mosca che a Pechino) che alla fine degli anni settanta lottava per l’indipendenza. In particolare fu la fazione che appoggiò Mugabe e con lui la lotta armata che condusse alla vittoria contro gli inglesi. Di fatto oltre ad essere un partito politico, lo Zanu-Pf costituisce uno stato dentro lo stato, molto vicino alle forze armate. L’azione della scorsa settimana dell’esercito è stata ulteriormente legittimata proprio dal partito che Sabato oltre a sfiduciare Mugabe ha nominato come capo dello Zanu-Pf Emmerson Mnangagwa. Proprio l’ex vicepresidente (detto il coccodrillo) esautorato da Mugabe sotto richiesta della moglie Grace, la quale lo vedeva come un ostacolo alla sua successione. Fu proprio questo l’episodio che rese inevitabile l’intervento dell’esercito che covava da tempo, ora anche il braccio politico del partito ha deciso di investire su Mnangagwa.

 

Il colpo di mano dell’esercito si può definire “soft”, non un solo colpo è stato sparato, le conseguenze di questo passaggio di consegne potrebbe essere ugualmente “soft”. L’impressione è che l’establishment dello stesso Zimbabwe e le potenze straniere(Cina), vogliano destituire Mugabe per tornare al vecchio Mugabe. Oltre ai giochi di parole il messaggio che passa sembra essere questo, a cavallo tra gli anni novanta e gli inizi dei duemila lo Zimbabwe è stato un partner strategico fondamentale sia per il Sudafrica che per Pechino. Negli ultimi anni Mugabe aveva intrapreso una politica economica scellerata, fatta di espropri e protezionismo. Questo tipo di politiche aggravate dalle sanzioni occidentali hanno fatto si che la situazione del paese sia precipitata a livelli mai visti dal tempo dell’indipendenza. Oltre alla situazione interna ormai è chiaro che in tutta questa vicenda vada considerata la posizione Cinese. Pechino non può permettersi di perdere una delle sue “teste di ponte” in Africa per le politiche sclerotiche di un anziano leader mal consigliato dalla moglie. Di conseguenza non è da escludere che abbia favorito la destituzione di Mugabe puntando proprio su Mnangagwa. Ovviamente sottotraccia, senza spargimenti di sangue o crimini di guerra, insomma evitando tutte quelle problematiche che hanno caratterizzato la maggior parte dei passaggi di potere in Africa quando ad essere coinvolta era una potenza Europea. Forse siamo di fronte all’ennesima lezione di Geopolitica Cinese in Africa.

Di Federico Rago