È intervenuto ai microfoni di Metropolitan Magazine Rick Dufer, divulgatore filosofico sul web (appartenente a quella cerchia di “YouTube bene” divulgativa cui fa parte anche un altro nostro ospite, Barbascura X) e appassionato di basket e NBA. Due fili rossi, la filosofia e la pallacanestro, che spesso si incrociano creando mirabili trame attorno ai protagonisti del gioco e alle loro gesta. E allora può capitare che un Friedrich Nietzsche incontri un Michael Jordan. Rick ci parla di questo, della sua passione per la palla a spicchi e di quella magnifica realtà che è l’NBA.
Ciao, Rick. È un grande piacere averti qui. Prima di parlare di basket: chi è Rick Dufer e cosa fa?
“Quando mi fanno questa domanda sono sempre in difficoltà. Diciamo che sono un ragazzo di 33 anni che ha la fortuna di poter lavorare parlando e scrivendo di quello che ama. Ho una grande passione per filosofia, letteratura, pensiero critico, e nel corso degli anni mi sono ritagliato uno spazio pubblico importante in questo campo. Lo faccio principalmente attraverso il web. Ho il canale Youtube “Rick Dufer”, ho il podcast “Daily Cogito”, un canale su Twich e ovviamente poi ci sono i libri, la newsletter… Sono abbastanza pervasivo su internet“.
Nei tuoi video e podcast tra un Kant e un Deleuze c’è anche traccia del basket. Qual è il tuo rapporto con questo sport?
“Io sono cresciuto giocando a basket. Ho giocato in maniera invasiva dai 6 ai 20 anni e posso dire che la pallacanestro mi ha formato tanto il modo di pensare, perché il basket è uno sport estremamente mentale, di riflessione, molto di più rispetto al calcio e a quegli sport che io definisco “orizzontali”, di velocità, di scatto; il basket è uno sport di spazi, di tempi, di durate che ti impone una lucidità che negli altri sport non ho mai trovato. Avendo giocato molto e avendo anche fatto l’arbitro per sette anni, ho usato il basket anche per formarmi mentalmente. Prima che uno sport, è stata un’occasione per usare il cervello; ecco, io amo il basket perché se sai giocare a basket, sai usare molto meglio il cervello rispetto al corpo. Ho cominciato a seguire l’NBA nel ’96, sull’emittente della base militare americana che a casa mia prendeva malissimo, era tutto in bianco e nero e senza audio. Le prime partite che ho visto furono le finali del ’96 dei Bulls, e fu un fulmine a ciel sereno. Per due anni ho continuato a seguire il basket leggendo alcune riviste e guardando quelle poche partite che riuscivo a captare con il canale criptato. Poi quando ce n’è stata l’opportunità, abbiamo fatto l’abbonamento a Tele + e ho cominciato a guardare le partite con le magnifiche narrazioni di Federico Buffa e Flavio Tranquillo. Anche loro per me sono stati importantissimi perché ho capito l’importanza di raccontare una storia“.
Tra i tuoi idoli personali c’è Kobe Bryant. Qual è il testamento filosofico lasciatoci dalla Mamba Mentality?
“Bryant mi ha insegnato come si può utilizzare in modo positivo l’energia negativa che gli altri ti riversano addosso. Ho seguito in modo molto viscerale la sua vicenda nell’annus horribilis in cui fu accusato dello stupro, che era ancora un periodo difficile. Per un anno è stato di fatto il giocatore non solo più chiacchierato ma anche più detestato dell’NBA. Io ricordo il modo in cui lui ha cominciato a usare questa energia negativa per crescere, per maturare; per me è stata una lezione enorme, perché lì ho capito che l’autovalutazione che fai di te stesso non può mai tenere conto troppo di quello che gli altri pensano di te. È stata una lezione che mi ha cambiato, Kobe è stato un esempio incredibile. La sua morte è stata una mazzata, anche perché io lo seguivo ancora nei video e nei suoi progetti. Era uno che poteva dire ancora tante cose“.
Un altro è Michael Jordan. Stai guardando The Last Dance? Che ne pensi?
“Sì, lo sto guardando, è molto emozionante. È una serie che aspettavo da quando l’avevano annunciata. Jordan è stato il primo che ho incontrato, in quelle finali del ’96. Come fai a non innamorarti? Ho sentito subito una grande ammirazione per Jordan che è stata poi fagocitata da Bryant, ma credo ancora che Jordan sia stato il più grande in assoluto. Il livello a cui lui da solo ha portato il gioco non è stato raggiunto da nessuno nella storia dello sport, neanche da Muhammad Ali con il pugilato; non c’è un singolo sportivo che abbia mutato così radicalmente l’immagine mondiale dello sport. Qualche anno fa parlai con un giornalista, che aveva curato una parte di una sua biografia, che mi raccontò di come anche andando anche nella Cina rurale, chiedendo chi fosse Michael Jordan, sapevano tutti chi era. È un fenomeno dell’immaginario mondiale che ha valicato la pallacanestro in sé per sé“.
Jordan sicuramente è stato il primo vero centro di polarizzazione dell’attenzione verso l’NBA. Quanto è stato efficiente il sistema comunicativo della lega per creare quell’enorme realtà che è oggi l’NBA?
“Andando a vedere come si è evoluta questa vicenda, l’NBA si è accorta un po’ tardi dell’esplosione mediatica di Jordan. I primi a vedere questa cosa furono i suoi sponsor, soprattutto la Nike, che è stata il gancio trainante di questa narrazione che ha fatto innamorare tutto il mondo. L’NBA poi se n’è accorta comunque con grande capacità, valorizzandone la figura, curando anche la propria immagine in modo fenomenale, fino a quelli che secondo me sono gli scivoloni degli ultimi anni legati alle relazioni con la Cina. Obiettivamente l’NBA è una delle leghe che ancora più di qualunque altra riesce a curare la propria immagine“.
Alle Finali del ’97 Jordan giocò una partita storica, in cui probabilmente andò oltre i suoi limiti. Possiamo avvicinare quel famoso Flu Game al concetto Nietzschiano di Volontà di Potenza (forse rischiando troppo di derubricare il pensiero del filosofo tedesco)?
“Ovviamente la figura di Jordan si presta molto a questo tipo di letture, si possono affiancare sicuramente questi concetti. La Wille zur Macht, la Volontà di potenza, è qualcosa che si vede in queste figure: questa volontà di volere, questa spinta che valica quelle che possono essere le condizioni più materiali del benestare, della serenità e via dicendo. C’è una capacità, in qualche modo, di queste figure come Jordan di distaccarsi dalle condizioni esterne, in questo caso il malessere, l’intossicazione per focalizzarsi verso un obiettivo e ottimizzare le energie in vista di quell’obiettivo. Sicuramente il concetto di Volontà di potenza è un concetto che si avvicina molto alla figura di Jordan, sì“.
E restando per un attimo sull’intreccio tra basket e filosofia, trovi in altri concetti o dottrine filosofiche un filo che li collega a particolari cestisti o contesti NBA?
“Riprendendo l’esempio che facevo di Bryant, lui è stato un esempio di stoicismo moderno: quella capacità di sentirsi distaccati anche rispetto all’opinione altrui. Una cosa che mi è capitata di dire e scrivere negli ultimi tempi è che noi viviamo in una società che spesso si offende, in cui è facilissimo triggerarsi: qualcuno dice qualcosa di contrario a quello che tu pensi, che senti di essere, contrasta le tue idee, le tue convinzioni e tu ti arrabbi perché sei insicuro di quelle cose. Bryant è stato l’individuo che riesce a mantenere un distacco razionale da questo tipo di stimoli, anzi trasformandoli in energia positiva. Anche quello di Jordan può essere definito stoicismo, con questa capacità di distaccarsi dalle condizioni che per tutti gli altri sono pervasive. Se io avessi un’intossicazione alimentare, non riuscirei mai a registrare un video o un podcast; questi riescono a giocare una finale NBA segnando 38 punti e portando la squadra alla vittoria, che è impensabile. Anche il concetto di atarassia, quindi il fatto di riuscire a farsi rimbalzare addosso le cose che normalmente ti porterebbero a modificare la tua condotta“.
Concludiamo brutalmente con una chiacchiera da bar: qual è il quintetto all-time di Rick Dufer?
“Come playmaker John Stockton. Sono indeciso tra Nash e Stockton, però l’intelligenza di Stockton è qualcosa di incredibile. Come guardia ovviamente Kobe. Fra le ali piccole ce ne sono tante di fenomenali; la risposta più immediata che mi viene è Lebron, anche se non metterei mai nella stessa squadra Kobe e Lebron perché sarebbe una squadra che non funzionerebbe. Sicuramente come ala piccola Lebron è il più dominante degli ultimi decenni. Come ala grande non si può non dire Tim Duncan, il mio giocatore preferito dopo Kobe. Duncan è stata una visione vera e un’ispirazione. Come centro non si può non andare su Shaquille, anche se non l’ho mai amato come giocatore; non mi sono mai granché piaciuti i giocatori di grande potenza fisica, ma non si può non riconoscere la grandezza del centro più dominante degli ultimi trent’anni“.