Era stato annunciato ed è successo. Centinaia di persone sono scese per le strade di Hong Kong per protestare contro la legge sulla sicurezza che il governo centrale di Pechino vorrebbe imporre alla città di Hong Kong senza passare per il LegCo, il Consiglio legislativo cittadino.
L’ira dei manifestanti si era già manifestata nei giorni scorsi: la legge, a detta di uno dei più influenti leader pro-democrazia, Joshua Wong, è anche peggiore dell’extradition bill, la cui proposta ha causato l’indignazione dei residenti e mesi di scontri con la polizia.
Oggi dalle parole si è passati alle azioni: nonostante i divieti imposti per il coronavirus, i manifestanti si sono radunati in una strada nella zona commerciale di Causeway Bay urlando “l’indipendenza di Hong Kong è l’unica via d’uscita“.
La tensione è salita al punto tale che si sono registrati scontri con le forze dell’ordine. La polizia ha dichiarato in una nota che gli agenti hanno dovuto usare i gas lacrimogeni per disperdere la folla che aveva bloccato il traffico e lanciato ombrelli, bottiglie d’acqua e altri oggetti contro gli ufficiali.
Ritorna la tensione nell’ex colonia britannica
Il tentativo di Pechino di erodere ulteriormente l’autonomia della città cantonese non poteva far altro che riaccendere gli animi del fronte democratico. Già nelle scorse settimane alcuni attivisti avevano tentato di organizzare piccole manifestazioni, ma l’emergenza coronavirus, unita agli interventi della polizia che soffocavano sul nascere qualunque tentativo di protesta, hanno avuto la meglio, almeno fino ad oggi.
Molti residenti vedono la mossa del Partito Comunista come il la volontà di svuotare del suo significato il principio “un paese, due sistemi”, che regola i rapporti tra la Cina e la città autonoma. Ancora di più, la proposta è vista come un attacco alle libertà civili e democratiche – come la libertà di parola, di stampa e di riunione – che non sono riconosciute nella Cina continentale.
La tesi dei manifestanti è inconfutabile: nascosta dietro l’apparente volontà di punire esclusivamente gli atti di separatismo, terrorismo e ribellione, la legge sulla sicurezza finirà per essere usata come strumento di repressione del dissenso nella città di Hong Kong, nonostante le rassicurazioni di Carrie Lam ed altre personalità vicine al Partito Comunista.
Pechino non vuole che si ripeta quanto avvenuto nell’ultimo anno: un gruppo di ragazzi, in gran parte studenti universitari, è riuscito a mettere in grave imbarazzo il più grande regime autoritario del pianeta, in un periodo in cui l’apparente solidità del Partito Comunista Cinese iniziava a scricchiolare sotto i colpi del rallentamento economico, della disparità tra la fascia costiera del paese e l’entroterra, della guerra commerciale degli Usa, dei dossier sugli uiguri nello Xinjiang e, per ultimo, lo scoppio dell’epidemia.
Pechino vuole reprimere il dissenso
Il messaggio di Pechino è chiaro: il modello da seguire è quello dei cinesi della terraferma. “Rispetta le regole e non ti succederà nulla, protesta contro il governo e ci saranno conseguenze”.
“Agli occhi della dittatura monopartitica del Partito comunista cinese, la difesa della democrazia è vista come una sovversione“, ha dichiarato Lee Cheuk-yan, che domenica scorsa ha guidato una piccola protesta davanti all’ufficio di collegamento cinese, che rappresenta il governo centrale ad Hong Kong. “Naturalmente questa è una minaccia per il popolo di Hong Kong e per la libertà di cui abbiamo goduto“.
L’attentato alle libertà di Hong Kong è reso ancora più grave dalla complicità del governo cittadino guidato da Carrie Lam, la quale, incapace di emanare una legge sulla sicurezza a livello locale, ha accolto con favore la volontà del governo centrale di imporla dall’alto, senza passare per il Consiglio Legislativo di Hong Kong.
Il governo di Hong Kong aveva già tentato nel 2003 di promulgare una legge sulla sicurezza, ma le proteste di massa lo convinsero a mettere in un cassetto la bozza. Da allora il governo della città ha evitato di reintrodurre il progetto di legge.
La legge sulla sicurezza è soltanto l’ultimo dei numerosi eventi che hanno reso evidente la volontà del governo centrale di non rispettare l’accordo siglato con il Regno Unito nel 1984, ed entrato in vigore nel 1997.
Pechino ha da sempre violato l’autonomia cittadina; ne sono un esempio i rapimenti dei 5 librai della Causeway Bay Books, avvenuti nel 2015, riapparsi poi nella Cina continentale. I librai erano “colpevoli” di aver pubblicato libri che rivelavano dettagli imbarazzanti di alti funzionari del Partito Comunista e dello stesso presidente Xi Jinping.
L’ultimo atto è stato il maxi arresto di 14 influenti personalità pro-democrazia della città, tra i quali spiccano i nomi di Martin Lee – avvocato che partecipò alla commissione per la stesura della Basic Law – conosciuto in città come il “padre della democrazia” e il magnate dei media Jimmy Lai, proprietario di Appledaily, il principale giornale anti Partito Comunista.
Con questa legge, così come con quella sulle estradizioni che aveva innescato le proteste dell’ultimo anno, il governo centrale fa un salto di qualità. Il partito vuole mostrare pubblicamente di essere intenzionato a trasformare Hong Kong in una qualsiasi città cinese.
Nelle ambizioni di Xi Jinping, la Cina dovrà diventare il paese egemone entro il 2049, anno del centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, e per farlo è necessario intensificare il controllo sulla popolazione. La città di Hong Kong, sospesa tra la tradizione cinese e l’adesione ai principi democratici occidentali, rappresenta una scheggia impazzita, un “virus politico” che potrebbe espandersi anche sulla terraferma, quindi da soffocare.
In attesa di conoscere i dettagli della nuova legge, che è stata proposta questa settimana in occasione della riunione in seduta plenaria dell’Assemblea Nazionale del Popolo, è ragionevole pensare che la protesta di oggi sia solo l’atto primo di una nuova e lunga ondata di manifestazioni e di scontri.
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