Cina: l’Assemblea Nazionale del Popolo tra economia e controllo su Hong Kong

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Di Redazione Metropolitan

Cina – Le “lianghui”, le due sessioni, sono l’evento politico più importante in Cina. Solitamente si svolgono ad inizio marzo, ma l’emergenza coronavirus le ha fatte slittare di due mesi. Giovedì 21 maggio ha preso il via la sessione annuale del Comitato nazionale della Conferenza politica consultiva del popolo cinese (uánguó Rénmín Zhèngzhì Xiéshāng Huìyì), la massima assemblea consultiva alla quale partecipano tutti i vari partiti politici. Ancor più importante, oggi, venerdì 22 maggio, è stata inaugurata in Cina l’Assemblea Nazionale del Popolo (Quánguó Rénmín Dàibiǎo Dàhuì), ovverosia la camera legislativa cinese in seduta plenaria che conta 3.000 deputati.

I due eventi, che quest’anno dureranno una settimana e non due come da prassi, hanno un’importanza fondamentale per la vita politica e sociale cinese. Durante le lianghui, sotto la guida del Partito Comunista Cinese, la Repubblica Popolare stabilisce i piani e le priorità in campo politico ed economico per l’anno a seguire.

L’economia al centro della discussione

Come prevedibile, le conseguenze economiche del coronavirus sono state enormi anche per il paese del dragone, che ha segnato un calo del PIL del 6,8% nel primo trimestre, costringendo la classe dirigente a rivedere al ribasso le stime per il prossimo anno.

A sorpresa, il Primo Ministro cinese, Li Kequiang, ha annunciato che Pechino, per la prima volta, non ha fissato un obiettivo di crescita preciso. La motivazione è da rinvenire soprattutto nel momentaneo stop delle economie di tutto il mondo, rendendo alquanto difficoltoso fare delle stime che possano risultare attendibili.

Non abbiamo fissato un obiettivo specifico per la crescita economica per l’anno, principalmente perché la situazione epidemica globale e la situazione economica e commerciale sono molto incerte, e lo sviluppo della Cina sta affrontando alcuni fattori imprevedibili“, ha infatti detto Li all’Assemblea.

Disoccupazione e misure a sostegno delle imprese

Proprio per questo, il focus del governo è sulla disoccupazione. Nell’area urbana, il governo cinese spera di mantenere il tasso dei disoccupati al 6%, in aumento di mezzo punto rispetto al 5,5% del 2019. La Cina ha fissato l’obiettivo di creare oltre 9 milioni di posti di lavoro urbani quest’anno, in calo rispetto a un obiettivo di almeno 11 milioni nel 2019 e il più basso dal 2013.

Sempre secondo quanto dichiarato dal Premier Li, le piccole e medie imprese avranno la possibilità di ritardare il pagamento di prestiti e interessi di altri nove mesi, fino al marzo 2021. Le grandi banche, invece, dovranno aumentare del 40% i prestiti alle PMI.

Nelle intenzioni del governo, quindi, ci sarà un forte supporto alle imprese. Saranno proposti investimenti soprattutto nelle infrastrutture, dal 5g all’integrazione della tecnologia nell’industria.

Gli investimenti in campo tecnologico

La questione tecnologica assume una rilevanza particolare; la Cina ha già da tempo manifestato l’intenzione di diventare il paese leader nel settore tecnologico e di non dipendere più dalla tecnologia estera. Proprio per questo, già da diversi anni è stato varato il piano “Made in China 2025”, ovverosia l’ammodernamento di dieci i settori chiave come l’intelligenza artificiale, veicoli a risparmio energetico, medicina biologica ed altri.

La tecnologia è oggi più che mai centrale non solo per la Cina, ma anche e soprattutto per gli Stati Uniti, che rischiano di perdere il primato detenuto per decenni.

Come è noto, gli USA hanno da tempo iniziato una guerra senza esclusione di colpi contro i colossi tecnologici cinesi, Huawei e ZTE in testa. La sfida ora passa sul piano dei semiconduttori, con la taiwanese TSMC, leader mondiale del settore, che ha già annunciato che investirà 12 miliardi di dollari in Arizona, mossa che non è piaciuta a Pechino.

Per quanto riguarda i fondi stanziati dal governo, si è stabilito un aumento del 6,6% per la spesa militare, il minore da trent’anni, mentre il budget per la protezione ambientale aumenterà del 4%.

Il primo codice civile cinese

Il parlamento cinese è pronto a emanare il suo primo codice civile, su cui i tecnici lavorano dal 2014, che mira anzitutto a rafforzare il diritto di proprietà privata, tema storicamente imbarazzante per un governo che si definisce comunista. Il codice si concentrerà anche sul diritto di famiglia e sulla normativa sul divorzio.

L’importanza del codice civile, però, potrebbe essere limitato, e questo per due motivi essenziali: il primo è che il codice si occuperà di riunire in un unico testo una moltitudine di leggi già esistenti. Il secondo motivo è che l’applicazione delle norme in esso contenute sarà aleatorio, e non tanto per la formulazione legislativa, quanto per la mancanza di indipendenza della magistratura cinese dal potere politico.  

Ancora di più, come affermato da Xin Sun, docente di affari cinesi e dell’Asia orientale presso il King’s College di Londra e riportato da Reuters, il nuovo codice non tranquillizza del tutto gli imprenditori poiché, “copre solo le controversie civili, non aiuta a proteggere i diritti di proprietà contro il sequestro di beni da parte dello stato, una delle preoccupazioni più importanti tra gli imprenditori”.

La legge sulla sicurezza ad Hong Kong. La fine del principio “un paese, due sistemi”?

Le notizie più scottanti sul piano politico riguardano Hong Kong e, in misura minore, Taiwan.

Per quanto riguarda lo stato insulare, che i cinesi considerano una provincia ribelle, il premier ha invitato i cittadini di Taiwan a perseguire la riunificazione della Cina.

È su Hong Kong, però, che sono puntati i riflettori. Quest’oggi è stata confermata l’indiscrezione del South China Morning Post secondo la quale il governo di Pechino era intenzionato ad emanare una legge sulla sicurezza ad Hong Kong e Macao senza passare per il LegCo, il consiglio legislativo della città autonoma. Si presume, inoltre, che potranno essere aperti uffici delle agenzie di sicurezza nazionale nell’hub finanziario mondiale.

La legge, almeno stando alle parole di Li Kequiang risponde alla necessità di “salvaguardare la sicurezza nazionale nelle due regioni amministrative speciali e permettere che i rispettivi governi assumano le loro responsabilità costituzionali”.

Il messaggio di Pechino è chiaro: non saranno più ammesse proteste né alcun tipo di manifestazione di dissenso contro il partito, e chiunque scenderà in strada per protestare verrà considerato alla stregua di un separatista, con tutte le conseguenze penali annesse.

Non è ancora chiaro come il governo riuscirà ad emanare questa norma, dal momento che l‘Articolo 23 della Basic Law, la mini-costituzione di Hong Kong attribuisce al governo locale il potere di emanare leggi in tale materie. L’articolo, infatti, recita:

La Regione amministrativa speciale di Hong Kong emana leggi su di vietare qualsiasi atto di tradimento, secessione, sedizione, sovversione contro il governo popolare centrale, o il furto di segreti di Stato, per proibire alle organizzazioni o agli enti politici stranieri di condurre attività politiche nella Regione, e di vietare le organizzazioni politiche o organismi della Regione dall’instaurazione di legami con la politica estera organizzazioni o enti.

Il governo cinese può emanare una legge sulla sicurezza ad Hong Kong?

È probabile che il governo centrale, almeno dal punto di vista formale, formulerà la norma in modo che appaia come una legge mirante a tutelare anzitutto la sicurezza nazionale dalle influenze esterne, che è prerogativa di Pechino.

Non a caso, il Ministero degli Esteri cinese ha detto che la proposta di legge sulla sicurezza nazionale è urgente e necessaria a causa delle attività indipendentiste “anti-Cina” che “minacciano seriamente la sovranità cinese“.

Il capo dell’esecutivo di Hong Kong, Carrie Lam, appoggia la proposta di una legge sulla sicurezza nazionale da imporre a Hong Kong, motivando la sua adesione con la crescente instabilità della città. Carrie Lam ha affermato che le proteste dell’anno scorsohanno superato la linea alla base del [principio] ‘One Country‘”

La proposta di legge, nella sua essenza, è, però, palesemente mirante ad impedire che si ripetano le proteste dell’ultimo anno, che tanto hanno messo in imbarazzo il governo di Pechino. Con questa legge, il Partito Comunista mira ad erodere ulteriormente l’autonomia della città, volontà testimoniata dal maxi arresto di influenti personalità pro-democrazia dell’ex colonia britannica avvenuta il mese scorso.

Sono in molti ad Hong Kong a credere che questa legge, che rappresenta una palese ingerenza cinese negli affari cittadini, segnerà la fine del principio “un paese, due sistemi”, il centro attorno il quale si sviluppano le relazioni tra il governo centrale e la regione amministrativa speciale.

La preoccupazione di un controllo del partito sulla città è tale che la borsa ha segnato un calo del 5%, mentre gli Stati Uniti stanno valutando sanzioni, in accordo con l’Hong Kong Human Rights and Democracy Act. La legge, varata sei mesi fa, prevede che gli USA valutino periodicamente il grado di autonomia e del rispetto dei diritti umani di Hong Kong, e nel caso imporre sulla città gli stessi dazi previsti per i prodotti cinesi.

Joshua Wong chiama in strada i cittadini

Come ampiamente prevedibile, le reazioni nell’ex colonia britannica sono state di fuoco.

A poco sono servite le parole del Rappresentante cinese ad Hong Kong, il quale ha affermato che le libertà di parola, di stampa, di editoria ed assemblea “non saranno influenzate” dalla legge, la quale sarebbe motivata solo dal fatto che alcuni elementi ad Hong Kong sarebbero collusi con forze internazionali anti-cinesi e gruppi a favore dell’indipendenza a Taiwan.

Gli attivisti pro-democrazia sono già sul piede di guerra. Joshua Wong, storico leader del fronte democratico di Hong Kong, è intenzionato ad incontrare la stampa per annunciare la volontà di scendere nuovamente in strada a protestare, indipendentemente dal coronavirus.

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