Pittore colto e raffinato, attento conoscitore dell’arte di ogni epoca, precursore della grande stagione barocca europea, il fiammingo Peter Paul Rubens (Siegen 1577 – Anversa 1640) ha vissuto in Italia per ben otto anni, consegnando alla storia un’opera incredibile: la Madonna della Vallicella, felice esempio di tecnologia ante litteram.
Rubens e la parentesi italiana
Il 9 maggio del 1600 Rubens parte per il Bel Paese per studiare le opere dei grandi maestri e perfezionare la propria arte. Dopo un periodo trascorso a Mantova, presso la corte di Vincenzo I Gonzaga, il giovane si stabilisce a Roma. In città si respira un clima di fervore religioso, che ancora risente delle misure messe in atto dalla Chiesa cattolica in seguito al Concilio di Trento. L’Italia era all’epoca una tappa obbligata per gli artisti che venivano dal Nord, ma Rubens non si limita ad eseguire sterili copie dal vero. Nello studiare le opere altrui, il fiammingo crea un vero e proprio campionario di pose, gesti, soluzioni stilistiche, desunti dall’antico ma trasfigurati in un linguaggio nuovo e personale.
Rubens: la Madonna della Vallicella
Nel 1606, per l’altare della Chiesa di Santa Maria in Vallicella, nota anche come Chiesa Nuova, Rubens realizza un olio su tela di grandi dimensioni. Di fronte ad un arco monumentale colloca San Gregorio Magno circondato dai santi Mauro, Domitilla e Papiano. Rifiutata dai committenti ed oggi custodita nel Museo di Grenoble, questa prima versione è subito seguita da un’altra, ancora più grandiosa: la Madonna della Vallicella.
Portata a termine fra il 1606 e il 1608, l’opera è considerata il capolavoro del periodo romano di Rubens. Per fronteggiare l’inconveniente della luce che, riflettendo sulla tela, la rendeva illeggibile, l’artista decide questa volta di lavorare ad olio su tavola di ardesia. Si tratta, per il pittore, della seconda commissione pubblica a Roma, rispetto ad un primo ciclo pittorico per la basilica di Santa Croce in Gerusalemme, oggi in parte perduto. La grande pala d’altare, collocata in fondo all’abside, presenta la Madonna col Bambino benedicente racchiusi in un ovale, circondati da un tripudio di angeli e cherubini adoranti. La concezione illusionistica dello spazio, che sembra espandersi oltre i limiti stessi dell’opera, la ricchezza cromatica e sfarzosa, le forme dinamiche ed esuberanti, sono il segno distintivo di un linguaggio pittorico nuovo e sorprendente.
Felice connubio fra tecnologia ed arte sacra
Nel commissionare l’opera a Rubens, i padri filippini hanno uno scopo ben preciso, quello di celare e preservare dal deterioramento un dipinto ad affresco, considerato miracoloso, raffigurante la Vergine col Bambino e due angeli. La leggenda vuole che l’immagine votiva, originariamente conservata nella chiesa medievale della Madonna della Vallicella, abbia in passato versato lacrime di sangue. Rubens, in maniera straordinariamente ingegnosa, concepisce e realizza un vero e proprio quadro motorizzato, giocato su un sistema di pulegge e corde. Una volta alla settimana, dopo la funzione del sabato sera, il meccanismo viene azionato: l’ovale con la Madonna e il Bambino scompare nell’intercapedine della parete, mostrando l’icona sottostante.
Tre opere in dialogo fra loro
La pala d’altare fa parte di un trittico “espanso”, che trova il suo naturale completamento nei due dipinti ai lati del presbiterio. Quello a sinistra raffigura i Santi Gregorio Magno, Papia e Mauro; quello a destra i Santi Flavia Domitilla, Nereo e Achilleo. Le tre opere, in dialogo fra loro, sono le uniche dell’artista ad essere ancora collocate nella loro destinazione originale.
Silvia Staccone
Seguici anche sulla nostra pagina Facebook e sulla nostra pagina Twitter!