L’Olocausto è stato raccontato da tantissimi autori e registi cinematografici, che ne hanno sempre messo in evidenza l’orrore. Dalla brutalità dei campi di concentramento, alle deportazioni, passando per le violenze gratuite dei nazisti su chiunque andasse contro il sistema. Questa volta, però, spostiamo la lente dalle deportazioni e i campi di concentramento, alla tragica fuga di chi ce l’ha fatta. È questo ciò che racconta “Un sacchetto di biglie” film del regista canadese Christian Duguay, tratto dal libro di Joseph Joffo, che nel 1973 ci ha raccontato la sua storia vera. La pellicola sarà trasmessa stasera in TV su Rai 1 alle 21,25.
“Un sacchetto di biglie” racconta la storia di due fratelli ebrei, Joseph e Maurice, che vivono nella Francia occupata dai nazisti nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale. Un giorno i due sono obbligati dai genitori a lasciare Parigi per sfuggire alla cattura. I genitori promettono loro che la famiglia si ricongiungerà presto. Inizia dunque per i due un lungo viaggio, che li porterà ad attraversare tutta la Francia e a perdere pian piano ciò che resta della loro innocenza. Il regista non ci mostra mai gli orrori nei campi di concentramento, né le deportazioni, restando fedele al libro di Joffo e al punto di vista dei bambini, veri protagonisti del film.
“Un sacchetto di biglie”: perché fare un remake?
In verità la pellicola di Duguay è un remake di un altro film omonimo girato nel 1975 da Jacques Dillon. L’autore del libro da cui sono tratti i due film, Joseph Joffo, nonché protagonista della vicenda narrata, ha spiegato le motivazioni che l’hanno portato, a 42 anni dall’uscita del primo film, a chiedere la realizzazione di un remake. “La figura del padre nel primo film non era verosimile – ha dichiarato Joffo – mentre in Christian Duguay, che al rapporto padre e figlio è particolarmente attento anche quando gira un film come “Belle & Sebastien – L’avventura continua”, ho trovato il regista capace di restituire verità al loro rapporto.“
E in effetti la figura di Roman, papà di Joseph, nel film di Duguay ha una grande importanza. Dipinto un po’ come un modello, “il padre perfetto”, nel suo ritratto scorgiamo ancora lo sguardo del bambino che non poteva che considerarlo un eroe. Dunque il regista canadese ci racconta un rapporto che non è mai cresciuto, ma che è rimasto sempre quello fra un bambino e un adulto. In generale la famiglia Joffo viene raccontata da Christian Duguay in modo abbastanza stereotipato. Assistiamo per gran parte del film a un idillio familiare che ci regala momenti fin troppo sdolcinati. Probabilmente questo è un modo per far soffrire allo spettatore la separazione dei vari membri del nucleo familiare, ma Duguay sembra andare un po’ oltre.
Lo stile e il significato delle biglie
Il regista canadese dimostra di avere uno stile ben definito: inquadrature strette e dettagli, infatti, si alternano nel corso di tutto il film. Con questo taglio registico Duguay sembra voler indagare la psicologia dei suoi personaggi, ma in verità resta sempre in superficie, senza approfondire gli spunti che i suoi protagonisti gli offrono. Troppi i didascalismi, dagli stereotipi già menzionati a un invadente voice over che ci racconta, in alcuni momenti del film, le emozioni di Jo. Inoltre i dialoghi risultano spesso mielosi ed eccessivamente costruiti. Eppure, nonostante i tanti difetti, Duguay riesce a coinvolgere e commuovere lo spettatore.
Le biglie, che danno il titolo al film, sono un simbolo di grande importanza. La piccola biglia che Joseph porta sempre con sé rappresenta il gioco, lo svago, l’età infantile. Inizialmente Jospeh e Maurice si divertono a giocare con le loro biglie, ma quando gli orrori li portano lontani da casa, e per i due inizia un vero e proprio viaggio per la sopravvivenza, non lo faranno più. Il piccolo Jo, però, porterà sempre nella tasca la sua biglia, unico elemento in grado di consolarlo nei momenti di sconforto. Infatti la sua biglia rappresenta la spensieratezza, ma anche il ricordo di un tempo e di un’infanzia che gli è stata strappata via. Il tentativo di ritrovare la felicità, anche se per poco. Perché come dice Joseph nel film “la felicità passa più in fretta della tristezza”.
Paola Maria D’Agnone
Seguici su MMI e Metropolitan Cultura.