Una critica al giornalismo non si può fare su un giornale, da parte di una giornalista (si direbbe). E in una frase c’è già la sintesi di una distorta narrazione del pensiero contemporaneo. È tutto qui, in fondo, il biasimo? Se dietro non c’è storytelling, forse il giornalismo rimarrebbe una radio che parla a ruota con un megafono scarico. E nessuno ci sente. Cosa succede, però, se lo storytelling diventa più marketing che narrazione? 

La strategia di produzione di contenuti Web non può rendersi esule da una strategia comunicativa, che a sua volta dipende dall’offerta, che obbedisce alla richiesta… e “che suo padre comprò”. L’era digitale del giornalismo non ha cambiato pelle soltanto perché la narrazione si è fatta tossica, ma questa è diventata manovrata perché le “leggi del mercato” non fanno sconti. Diventi succube del mercato, però, solo per un motivo: non hai altra tutela, non hai altra scelta. Allora la critica del giornalismo oggi cammina al contrario, per un’omissione di garanzia da parte di un sistema che non soltanto non protegge ma non permette al giornalismo di fare (in alcuni casi) altrimenti. Il problema della postmodernità nel giornalismo oggi parte da un indebolimento delle strutture di settore che porta inevitabilmente a uno smarrimento e a una distorsione dell’identità stessa per definizione del giornalismo. Dietro il giornalismo oggi c’è ancora un’opinione pubblica o è l’opinione pubblica a guidare il giornalismo? Ne parlo con Alberto Orsini, giornalista Tgr Rai Abruzzo, già collaboratore Ansa e Messaggero e caporedattore AbruzzzoWeb.it.

Intervista ad Alberto Orsini

Partendo dal fatto che “di giornalismo non si parla, il giornalismo si fa” ma che a volte si fa anche parlandone. Dal paradosso di questa conversazione, dove due giornalisti criticano il giornalismo, e si rischia di rimangiare nello stesso piatto dove si sa. Però la critica è a monte, siamo in alcuni casi costretti a fare cattivo giornalismo, per resistere in un sistema sbagliato in partenza? O siamo asserviti dallo stesso sistema? E che partita a scacchi…

Detesto discorrere di giornalismo che non sia applicato al prodotto, a un giornale, su qualsiasi piattaforma. Detesto festival, convegni e libri teorici, quelli che mi hanno propinato dal 2008, quando la materia ho cominciato anche a studiarla oltre che a “farla” alla scuola di Urbino, quei libri che le prospettive che ipotizzavano per il 2021 le hanno toppate sistematicamente. Parliamone comunque, magari sarà catartico. Il sistema non lo ritengo sbagliato in partenza, ma si è distorto in corso d’opera. Partendo dal presupposto che una società ha i giornali che si merita e viceversa, i giornalisti hanno i lettori che si meritano. Non so se siamo “costretti” a fare cattivo giornalismo, certo quando vedo in home del Corriere o di Rep le fotogallerie su Belen e sui gattini per fare traffico qualche dubbio viene. Ma ormai anche questo è vecchio: neanche ci faccio più caso, nel senso che – e dico l’ovvio – c’è una tale quantità di offerta che uno il suo giornale se lo compone un po’ come vuole, prendendo un pezzo di qua e uno là. Credo, anzi temo, dal nostro punto di vista, che lo facciano anche i lettori standard, oltretutto approdando a quel dato articolo non certo da un percorso lineare, passante, quindi, per le home page, ma dai sentieri più disparati. Social, chat e chissà quali altri rivoli di informazione. Bisogna tenerne conto: considerare un unico insieme l’affezionato “prodotto-giornale” sta diventando un lusso ed è poco significativo dal punto di vista statistico. Probabilmente è il caso di cominciare a badare più alla qualità dei singoli ingredienti, i singoli pezzi, che non del prodotto complessivo che viene cucinato.

Storytelling e giornalismo vanno a braccetto, da prima dell’avvento del digitale. Come oggi, però, lo storytelling nel giornalismo va a braccetto con il Marketing?

Sì e prima non c’era bisogno di ribadirlo, era implicito e andava bene così. Oggi storytelling è tutto, spesso si spera che i fatti vadano in un certo modo per proseguire una narrazione secondo un “copione” ideale che è più da sceneggiatori che da cronisti, penso a tutte le evoluzioni della pandemia, ma non solo. Questo è pericoloso perché se i fatti, poi, non vanno secondo la traccia che uno si è ipotizzato, ma meglio o peggio, potrai continuare a riportarli da cronista, ma tra le righe una sfumatura di delusione emergerà: potrebbe anche sorgere una forma implicita e inconscia di tendenza a influenzare quelle stesse storie e il modo di riportarle. Il marketing in questo scenario ci entra a gamba tesa e ci sguazza. Oggi che, a 25 anni dall’introduzione del digitale, ancora non si è trovato un efficiente e dignitoso modello di business. Le storie perfette vendono meglio di quelle imperfette: bella scoperta, scrittori, cineasti, sceneggiatori e fumettisti lo hanno interiorizzato molto tempo fa. Ma se la natura della realtà è di essere imperfetta, la fiction non può permetterselo: ai corsi di scrittura creativa e similari il precetto sarà che una storia di finzione non può avere sbavature, punti ciechi, punti morti, punti inspiegabili. Tutto deve quadrare come un meccanismo d’orologio. A differenza che nella vita reale, dove è previsto e quasi ogni giorno incontriamo l’assurdo, il folle, l’autolesionista, l’inconcepibile. Ecco perché è più difficile scrivere un buon giallo che un buon articolo di cronaca nera. Ed ecco perché indulgere nella narrazione, piuttosto che una ciambella di salvataggio, rischia di diventare un’arma a doppio taglio. I lettori affinati da anni di letteratura, film, serie, potrebbero trovare la realtà meno credibile della finzione

Il recente caso della parodia di Fedez sulle elezioni ci ha dimostrato prevalentemente due cose: che il giornalismo non segue più principi di ricerca e verità e che i lettori ormai non credono più a nulla, quindi subiscono tutto. Parliamone. 

Un altro paradosso: siccome non credo più a nulla, posso abboccare a qualsiasi cosa. Ce lo siamo un po’ meritato. Ai tempi belli, quando le redazioni erano templi chiusi, separati da un muro invalicabile dall’utenza, propinanavano qualsiasi cosa, forse non sempre in ossequio ai doveri e codici professionali di ricerca della verità e verifica di quanto trovato. Poi, passando all’estremo opposto, nell’epoca dei social e dei gradi di separazione azzerati in cui per scrivere a Cristiano Ronaldo mi basta andare sulla sua pagina e illudermi che possa leggere e financo rispondere, siamo caduti nel tranello dei social: la trappola allestita da Zuck e soci, ma forse sfuggita ai creatori come potenzialità nefaste, presuppone che un signor nessuno, un lettore in questo caso, possa porsi alla pari e – anzi – dare lezioni a chi questo lavoro lo ha studiato e praticato: proprio così come farebbe, con conseguenze ancora più disastrose, un paziente con uno specialista medico, un umarell con un ingegnere che sta costruendo una casa, un imputato con il suo avvocato e così via. Quante volte in coincidenza di pezzi scomodi, sgraditi o perché no, anche con qualche errore in buona fede, ai giornali scrivono lettori e interlocutori cianciando di cose a caso: voi non verificate le fonti, non rispettate la privacy, non fate bene il vostro lavoro e bla bla bla. Concetti appresi alla buona qui e lì di cui, tuttavia, sovente non hanno la minima conoscenza specialistica. D’altronde non essendo professionisti di questo settore non sono tenuti, eppure ne parlano. L’errore storico e ormai irreparabile è stato scendere in piazza, virtuale, accettare di essere sullo stesso piano, considerare un di più rispondere a domande e contestazioni, inaccettabili perché poste da predellini inaccettabili senza alcun presupposto.

L’accessibilità (e la facilità) delle fonti e di strumenti di ricerca ci danno l’impressione di poter fare tutto, senza però avere competenza di nulla. Quale potrebbe essere allora un modo per garantire un sistema di giusta informazione (e diffusione)? 

Immediatamente consequenziale a quanto rilevavo prima. La cesura tra giornalisti e lettori è netta e non si può ricucire temo, con un effetto altrettanto grave e irreparabile: i lettori pensano, ormai, di poter fare a meno dei giornalisti, dell’intermediazione tra un fatto e la sua spiegazione. Preferiscono accedere direttamente a quel fatto, volendo sapere, o meglio illudendosi di farlo, direttamente che cosa accade alla fonte, altro termine abusato a sproposito. Li chiamo i “luterani”, che contano sulla propria interpretazione soggettiva, in quel caso delle sacre scritture e in questo caso della realtà. Mi preoccupa vedere giovani e giovanissimi che rifiutano le due pagine di primo piano del Corriere sul nuovo decreto pandemico del governo e vanno a cercarsi su Google il testo del decreto stesso. Magari, tra l’altro, lo prendono dal sito del Comune di Cuccuruccù, senza curarsi se è un testo approvato o una bozza, se è aggiornato, se è completo, prima topica. Quindi, pretendono di leggere e interpretare i 150 articoli del decreto stesso. Un’operazione che, quasi sempre, si conclude dopo pochi minuti di insoddisfazione e lamentazioni su come siano intricati e poco “attuali”, poco smart, i testi normativi. Poco dopo, casualmente spunta un’infografica riassuntiva e riepilogativa, se va bene, o un meme, se va male sul solito decreto, propinata dalla pagina facebook “Ti spiego tutto”. E toh, bastava leggere e condividere quella in 35 secondi per capire tutto! Aiuto.

Se la degenerazione del sistema giornalistico mediatico è incominciata con l’avvento dei social media, allora quale sarà il futuro del settore?

Anche la seconda parte della domanda precedente invitava a uno scatto in più, una possibile soluzione. La verità è che francamente non ne ho idea. Certo sarebbe già un grosso passo avanti fermarci un attimo tutti e scendere dalla ruota del criceto (il famoso giornalismo di cui non si parla, ma si fa) e cominciare a porci il problema. Immagino solo che il “giornale scomposto” che citavo prima debba adeguarsi, o meglio, adeguare i suoi singoli contenuti, al modello di pubblico che c’è e sempre più ci sarà. Ci piace parlare della missione sociale e culturale del giornalismo, ma poi in soldoni ci sono aziende da portare avanti e clienti da trovare a cui vendere un prodotto di cui hanno poca fiducia, se non disprezzo, o addirittura peggio, ne ignorano l’esistenza o ne sono indifferenti. Chi ha 15 anni oggi probabilmente non ha mai sfogliato un giornale e il Covid ha accelerato la distruzione togliendo quasi completamente di mezzo la sua incarnazione cartacea. Resta il digitale, più accessibile e più digeribile, in teoria, per le nuove generazioni. Ma il modo di farlo arrivare ai giovani e, prima ancora, di convincerli che di questo strumento hanno e continueranno ad avere bisogno, non lo abbiamo ancora trovato. La sopravvivenza del giornalismo, per quanto mi riguarda, passa da questo. Se si accetta nel silenzio generale la linea che la combinazione “pdf trovato su Google” + tutorial + meme + diretta della social star Tal dei tali su un tema (pensa a tutto il battage mediatico sulla legge Zan) siano sufficienti a formare e informare il giovane e futuro adulto, per giornali, giornalismo e giornalisti non c’è più spazio, perché non servono più.

Tornare indietro non si può (nel bene e nel male), ma gli stessi strumenti che ci hanno permesso di evolverci ci possono permettere anche di migliorarci, dal momento in cui siamo consapevoli della narrazione tossica e sconsiderata. Quali sono allora i principi che dovremmo preservare e con quali mezzi e metodi dovremmo proteggerli? 

Si rischia di sconfinare sulla teoria classica e la retorica, mentre forse avremmo bisogno di princìpi pratici. Come base direi che verità del fatto, continenza verbale e interesse pubblico, le tre scriminanti che possono salvare un pezzo dalla diffamazione secondo la legge, sono dei buoni criteri su cui ispirare la propria azione. Ma non basta neanche un po’ questo concetto da esame di Stato. Qui il punto è ricostruire la credibilità del giornalismo andando a scovare un pubblico, offrendogli un prodotto intermedio, certo modificato, forse anche turandosi il naso, rispetto alle nove colonne di un tempo firmate Montanelli, per ottenere almeno un primo successo, ossia convincere qualcuno che sì, di questa roba c’è ancora bisogno. Quindi, con somma pazienza, si potrà lavorare per riportare questo pubblico “dalla parte giusta”, se ne esisterà ancora una compatta, unitaria e “geograficamente” riconoscibile. Sono abbastanza pessimista sul tema, si sarà capito, ma pronto a cambiare idea: il bello di questo mestiere è che non finisce mai, l’oggi va in archivio a fine serata e domani avrai ancora una chance per provarci ancora.