Dopo il tentativo diplomatico di Biden, Macron e Johnson per scongiurare una possibile guerra tra Ucraina e Russia guadagna terreno l’idea, indicata da Draghi, di tornare agli Accordi in 13 punti di Minsk come chiave per fermare l’invasione russa.

Cos’è il protocollo di Minsk e perché potrebbe essere utile nel risolvere il conflitto tra Russia e Ucraina

La soluzione in queste settimane in tutte le capitali europee è “Minsk”. Si riferisce a un Accordo vecchio di 7 anni e declinato in 13 punti. Sembra sempre di più la chiave per fermare la Russia dall’invadere l’Ucraina. Se ne parla sempre di più, dopo le visite di Macron fra Mosca, Kiev e Berlino, dopo le telefonate fra Draghi e Putin e dopo il viaggio di Scholtz (neo-eletto cancelliere tedesco) a Washington.

Definito anche “Minsk II” perché è seguito a una prima versione e fu stipulato in un vertice nella capitale della Bielorussia l’11 febbraio del 2015. Fu firmato dai capi di Stato di Russia, Ucraina, Francia e Germania al termine di una complicata negoziazione per mettere fine alla guerra del Donbass, la regione ucraina ai confini orientali con la Russia che aveva portato i territori di Lugansk e Donetsk, sostenuti, come si sa, dalle armi di Mosca, alla separazione dal governo di Kiev.

La soluzione potrebbe già esistere, ha trovarla sarebbe stato proprio Mario Draghi

A indicare questa strada è stato proprio il nostro Presidente del Consiglio Mario Draghi. In una dichiarazione del 22 dicembre scorso, in seguito a una delle telefonate con Putin, aveva ricordato che :

“le relazioni tra Ucraina e Russia sono disciplinate dagli Accordi di Minsk che non sono stati osservati da nessuna delle due parti. Quindi un’osservanza di questi accordi potrebbe essere il primo passo”.

In quel momento, a Draghi, occupato con la pandemia e il Quirinale era sembrato un modo diplomatico per prendere le distanze da un argomento spinoso.

Cosa prevede il protocollo di Minsk

Prevede il cessate il fuoco, la liberazione e lo scambio dei prigionieri, nuove elezioni, grazia e amnistia per chi ha partecipato alla rivolta, previsti rispettivamente nei punti 1, 3, 4, 5 e 6. Il Protocollo inoltre interviene in maniera profonda per modificare lo stato politico dell’Ucraina. Ad esempio con il punto 11, dove si prevede il cambio della Costituzione del Paese per riconoscere alle regioni separatiste margini ampi di autonomia.

Cito testualmente:

“Effettuare la riforma costituzionale in Ucraina attraverso l’entrata in vigore, entro la fine del 2015, della nuova Costituzione che preveda come elemento cardine la decentralizzazione; e prevedere una legislazione permanente sullo status speciale delle aree autonome delle regioni di Donetsk e Lugansk che includa, inter alia, la non punibilità e la non imputabilità dei soggetti coinvolti negli eventi avvenuti nelle citate aree; il diritto all’autodeterminazione linguistica; la partecipazione dei locali organi di autogoverno nella nomina dei Capi delle procure e dei Presidenti dei tribunali delle citate aree autonome”.

Questo è il punto più critico del Protocollo, quello che probabilmente ha impedito che fosse messo in pratica nel corso di questi sette anni. Perché questo protocollo in realtà piace solo a Mosca, né i separatisti, né gli ucraini sono rimasti entusiasti della conclusione.

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