“Binnu u’ tratturi” o “Zù Binnu” è in un modesto e anonimo casolare a Montagna dei Cavalli, nella provincia di Palermo. Sono decine di anni che lo cercano incessantemente. e decine di anni che “Zù Binnu” riesce a farla franca. Ma l’11 aprile 2006, a 43 anni di distanza, Bernardo Provenzano non può più sfuggire all’arresto.
Bernardo Provenzano nasce a Corleone, Palermo, il 31 gennaio 1933. La famiglia è numerosa, e il tempo da perdere dietro ai libri non c’è. Frequenta due anni di scuola elementare, poi viene spedito a lavorare nei campi. Come lui tanti altri coetanei, tra cui gli amici Totò Riina e Calogero Bagarella.
Bernardo Provenzano: gli anni della formazione mafiosa
I tre creano subito una forte complicità, ulteriormente saldata dalla ferrea volontà di non condannarsi ad una vita di fatiche bestiali. Si danno a piccoli furti di bestiame, finché la loro ambizione e sveltezza non arriva alle orecchie di Luciano Leggio, vice boss del democristiano Michele Navarra. Ragazzotti forti e svegli possono sempre fare comodo, e i tre iniziano la lenta e faticosa scalata dei gradi dell’organizzazione. Negli anni ’50 raggiungono già una certa credibilità criminale, e rappresentano di fatto il braccio armato con cui il boss corleonese esercita il proprio potere. Lavoratori, sindacalisti, innocenti che hanno visto troppo, possibili rivali: i tre non indugiano a far sparire chiunque possa rappresentare un problema. Le tensioni tra i boss e il suo braccio destro sono però in costante crescita ed esplodono il 2 agosto 1958: in risposta ad un fallito tentato omicidio, Leggio riesce a far fuori il capomafia e a prenderne il posto.
Al suo fianco, i tre ragazzi. Che nel periodo immediatamente successivo fanno personalmente piazza pulita di ciò che rimane del clan Navarra. E’ arrivato il momento di fare un viaggio a Palermo. L’aria a Corleone si è fatta pesante e poi è il momento giusto per i mafiosi di provincia di presentarsi ai capi che davvero contano. Si mettono al servizio di Salvatore La Barbera, che, in cambio di sostegno alla copertura che gli garantisce, li occupa nelle gestione dei suoi sterminati affari edilizi. Il 9 maggio 1963 Bernando Provenzano dà l’ordine e partecipa all’omicidio di Francesco Paolo Streva, un mafioso rivale. Evento probabilmente unico, i famigliare del mafioso uccidono indicano agli inquirenti senza indugio uno dei sicari, Bernardo Provenzano. E’ il 18 settembre 1963, e i carabinieri per la prima volta lo ascrivono nel registro degli indagati e un mandato d’arresto pende sulla sua testa.
Bernardo Provenzano: U’ Tratturi
E lui scompare. Ha inizio la sua latitanza e la mitologia intorno alla sua figura. 10 dicembre 1969: Totò Riina e Bernardo Provenzano sono a capo di un commando incaricato di uccidere Michele Cavatoio, diretto responsabile della prima guerra di mafia e della conseguente stretta repressiva dello Stato. Niente nell’assalto va come dovrebbe, e Bernardo Provenzano si ritrova a dover mettere fuori gioco Cavatoio, detto “La Bestia” per la sua crudeltà, a colpi di calcio di fucile, prima di finirlo con un colpo di pistola. E qui che, secondo il collaboratore di giustizia Antonino Calderone, Provenzano si guadagna il soprannome di “u’ tratturi”. “Era inarrestabile. Dove fosse passato lui, non sarebbe più cresciuta l’erba” confida a Giovanni Falcone nella preparazione del maxiprocesso. Si sposta in continuazione tra Palermo e Catania via treno: il contadino Bernardo Provenzano diventato pezzo grosso della mafia non ha mai imparato a guidare.
Nel 1974 diventa con Totò Riina il reggente della famiglia di Corleone, in seguito all’arresto di Luciano Leggio. Sempre un passo dietro rispetto a Totò Riina, secondo Tommaso Buscetta, con cui condivide la spietatezza ma non la lucidità strategica. Diventa “il ragioniere”. E’ lui a occuparsi della gestione economica dell’impero mafioso, mentre Riina fa piazza pulita dei rivali. Si sposa con Saveria Palazzolo da cui ha due figli, Angelo e Francesco Paolo. Organizza con Riina le stragi mafiose degli anni 80, per decretare una volta per tutte la superiorità militare e politica dei corleonesi su tutto il territorio siciliano. E quelle del ’92 nell’ottica della trattativa con lo Stato. Ma Riina è sempre un passo avanti, anche mediaticamente. Tanto che da più parti si inizia a sospettare che sia morto. Qualcuno lo vede a Corleone, ma non può davvero essere lui. Nel 1992 moglie e figli tornano in Italia dopo anni di vita in Germania. Parlano un tedesco perfetto e i sospetti che sia davvero all’altro mondo si rafforzano.
Un fantasma dal passato
Ma nel 1993, dopo l’arresto di Totò Riina, secondo gli inquirenti non può che essere lui il capo rimasto fuori dalle sbarre. Sono molti i pentiti a confermarlo. Inizia una nuova e serrata caccia all’uomo che, tra blitz falliti, depistaggi, compiacenza di forze dell’ordine corrotte e ritrosia a collaborare si trascina fino al 2006. Quel 11 aprile la mano che spunta furtiva dalla finestra del casale di Montagna dei Cavalli a ritirare frettolosamente un sacchetto di plastica pieno di biancheria pulita, sembra confermare i sospetti. Infatti è lui, Bernardo Provenzano. Solo più vecchio e trascurato di quel tranquillo anziano che qualche anno prima la polizia stradale ha fermato nei dintorni di Enna per un controllo, senza riconoscerlo. Tranquillo lo è anche al momento dell’arresto, quando l’irruzione della polizia mette fine alla sua eterna fuga. Circondato dalle uniche cose che, oltre al ruolo di primaria importanza nella mafia siciliana che ha sempre mantenuto grazie al metodo dei pizzini, sembra avergli dato un’identità sicura: una pentola con della cicoria bollita, un santino di Padre Pio, una branda scalcagnata e l’assoluta essenzialità del mondo contadino che fu.
Andrea Avvenengo
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