Il mondo non smette mai di girare. Lo cantava persino Domenico Modugno: “la notte segue sempre il giorno e il giorno verrà“. Non solo il sole, però, sorge ogni mattina. Con esso, anche i pensieri di chi vede le ore successive come tempo durante il quale essere produttivo a tutti i costi. Per obiettivo personale? Non in tutti i casi. Viviamo in una società ipertrofica che fagocita tutto e chiede anche di più. Rispetto alla quale tenere il passo diventa difficile. Una società che ci spinge a non stare fermi, a correre senza freni e di continuo verso la realizzazione e l’essere utili. Madre severa, è difficile conceda del tempo per prendere fiato, imponendoci sensi di colpa quando lo esigiamo noi. A importare è l’iperproduttività costante. Con quale risultato? Obbligarsi ad avere un obiettivo e vivere per realizzarlo porta a essere soddisfatti o solo stanchi?

L’ambiguo rapporto tra lavoro perfetto e soddisfazione

Un paio di sere fa ho avuto una crisi di nervi. Il motivo? Il lavoro che c’è ma non che c’è. Dalla laurea, ho accettato moltissimi incarichi, non sempre retribuiti, nella speranza che almeno mi aprisse le porte della tanto sospirata carriera di scrittrice. Articoli giornalistici da un lato e testi su commissione dall’altro, gli impieghi si sono affastellati, seppellendomi sotto il peso delle mie responsabilità. Che si riducono a un datore che mi paga un tanto a pezzo e ad altri che mi pagano, sì, ma in visibilità. La mancata retribuzione potrebbe essere un valido motivo per mettere la mia penna al servizio di chi la rispetta, certo. E nel frattempo? Ottimizzare il tempo accontentandosi spesso significa rinunciare ai propri sogni. Restare con le mani in mano mentre si cerca il lavoro perfetto, invece, non è concesso. Meglio dare fondo alle proprie energie nell’attesa.

È Godot il deus ex machina che concede un lavoro che unisca passione e soddisfazione. O siamo noi stessi. Perché è questo che ci si aspetta: che ci impegniamo abbastanza da raggiungere i risultati sperati. Il che sarebbe sacrosanto, se il nostro obiettivo e quello che la società prefissa per noi coincidessero.

Iperproduttività: il mostro nero delle nuove generazioni

Ma di quale società parliamo? Dalle valutazioni scolastiche ai social i cui idoli vantano una vita apparentemente perfetta, cresciamo circondati da aspettative sociali che chiedono sempre un “di più”. Lavori otto ore al giorno? “E nelle restanti cosa fai?”. Quasi fosse un peccato mortale non ottimizzare anche quelle. È una pressione sottile e costante come il filo del gomitolo lungo il quale siamo portati a correre. Non a camminare: a “correre”. E non importa quanto poco possa essere lo spazio per poggiare il piede o quanto instabile possano essere le certezze che ci offre. Bisogna andare avanti spediti. Mai retrocedere.

È un mostro nero che divora dall’interno e che è parte di un discorso tristemente generazionale. Che lo si chiami workaholic, perfezionismo o iperproduttività, il concetto non cambia. Siamo portati a dare il meglio di noi, a temere gli insuccessi, a brillare in ogni momento. E per farlo spremiamo le nostro energie fino all’ultima goccia, a volte esaurendole molto prima di ottenere un qualsiasi risultato. Una ricerca pubblicata su Forbes ha mostrato come il 66% dei nativi digitali sia dipendente dal lavoro, il 63% sia produttivo anche in malattia e il 32% persino in bagno. Questo perché la tecnologia ormai arriva ovunque, permeando ogni aspetto del vivere quotidiano. La pandemia e la possibilità di lavorare da casa hanno esasperato questa situazione. Siamo interconnessi, sempre, e quindi raggiungibili, a disposizione. Questa condizione grava come una pressione costante, la cui parola d’ordine è “produrre”.

Soddisfatti o solo stanchi?

Dare, dare, dare. Ricevendo cosa: Soddisfazione o stanchezza? Si può essere stanchi e soddisfatti, ma mai soddisfatti senza essere stanchi. “Fermati quando hai finito, non quando sei stanco”. Ecco uno dei mantra degli ultimi anni, uno dei più dannosi per la nostra salute mentale. Perché ci spinge a premere sull’acceleratore, a tralasciarci per mettere a tacere quella inavvertibile ma al contempo fin troppo forte voce che ci dice che non stiamo facendo abbastanza. Perché tralascia la possibilità che possiamo non sentire più di aver finito e non la affronta, concedendole allora il beneficio di uno stop.

L’iperproduttività sfrenata sta creando una società dove anche la soddisfazione passa per la stanchezza. Gli sforzi ripagano: è la legge del self-made man. Ma se ci si sforza tanto da non riuscire più a vedere la linea di demarcazione dall’esaurimento o dalla dipendenza, ne vale davvero la pena? Chiedetelo a chi si sveglia la mattina con una agenda rigorosa da rispettare al minuto per essere produttivo. Chiedetelo a chiunque, anche durante le pause, pensa a come organizzare la giornata nel tempo rimanente, a chi colleziona come fossero figurine gli esaurimenti nervosi perché sente di star facendo ancora troppo poco e avrete la vostra risposta.

Sara Rossi