Discutere della dignità dell’attivismo digitale fuori dai luoghi virtuali di aggregazione vuol dire andare incontro ad aspre critiche. Perché l’attivismo digitale è visto come rubare tempo e spazio al “vero” attivismo, cioè quello delle piazze. È sotto gli occhi di tutti l’importanza che le piazze hanno nelle pratiche di protesta, sono fondamentali. Queste però non escludono l’azione digitale o non dovrebbero.
L’attivismo digitale o social è un’invasione di campo. Letteralmente è una folla di persone che celebra una vittoria o protesta contro un’ingiustizia su un campo privato e che detta le proprie regole. È vero la sfida non è affatto facile: le piattaforme vogliono essere usate e l’attivismo digitale appare come un prodotto di queste. Si tratta dell’inganno della performatività, che nutre l’algoritmo grazie all’intersezionalità delle battaglie. Ciò che aiuta il proprio ego è nocivo per un’azione collettiva? In altre parole “il fine giustifica i mezzi”? Il detto semplificato e attribuito a Machiavelli metti di fronte a un dubbio lecito, ma ambiguo. Anche il mezzo concorre al fine, se questo non è etico anche l’obiettivo non lo è più.
L’attivismo digitale parla di se stesso a se stesso, coinvolgendo i consumatori dei social nella riflessione. Ecco perché attivismo digitale ha pro e contro quanto la controparte in piazza e perché questi non vanno intesi in competizione.
L’attivismo è ovunque, non solo nelle piazze
Chiediamo all’attivismo e alle persone che lo fanno di essere ovunque e di esserlo senza zone d’ombra. L’attivismo non può essere solo nelle piazze o per le strade delle principali città, dove arrivano giornali e televisione. L’attivismo deve essere pervasivo, deve diffondersi dove prima era estraneo o, meglio ancora, dove non era stato pensato.
L’attivismo digitale, per quanto molto discusso in questi anni, pone le sue basi fin dagli albori delle piattaforme digitali. Siamo lontani dagli inizi delle pratiche dell’attivismo digitale ed è ormai tempo di superare la dicotomia tra posizioni tecnofile e tecnofobe. Non esiste una “vita vera” o un “attivismo vero”. Anche se questo aspetto può spaventare i più naturalisti, che vedono nel rapporto con la natura l’unica relazione possibile con il mondo, da tempo il concetto di “naturale” è stato decostruito.
L’utilizzo dei social può essere attivo, può essere un contro-utilizzo rispetto a quanto delineato dallo spazio privato. La sensibilizzazione attraverso la divulgazione o la chiamata alle armi sono punti di partenza del contro-utilizzo dei social. C’è quindi spazio per la militanza digitale e per l’intervento digitale, quando nelle piazze virtuali si gioca il consenso per i palazzi di potere, quelli fisici. Ignorare l’attivismo digitale è un errore.
I rischi dell’attivismo digitale: performatività fine a se stessa
Il nostro corpo esiste tanto nella realtà, quanto nel digitale. Il confine tra fisico e non fisico è sottile e impreciso e non si può escludere l’utilizzo del corpo anche nelle pratiche digitali. L’attivismo digitale viene però spesso tacciato di essere una pratica individuale con lo scopo di fare pubblicità a se stess* e raggiungere così obiettivi di carriera o economici.
Quando si parla di attivismo performativo si fa riferimento proprio al coinvolgimento attivo per interessi personali. Con il termine “performance” si intendono dei risultati mediante una condotta economica o politica pensata a tale scopo. Oggi però molte delle azioni performative sono compiute sui social anche in maniera inconsapevole, come inseguire la notizia, parlare per prim* di una tematica e sperare che a questa sia data abbastanza attenzione. Sono azioni più vicine all’attivismo da click che alla performance in sé.
In ogni caso possiamo davvero dire che questo genere di attivismo performativo non porti comunque qualcosa alla lotta?
Pro e contro dell’attivismo digitale e di piazza: un confronto
Ho cercato di capire qual era l’impressione generale sull’attivismo nelle piazze e quello digitale, chiedendone pro e contro. Riassumendo le posizioni si può dire che l’attivismo nelle piazze è considerato fondamentale perché concreto e determinante. Allo stesso tempo per alcune persone è considerato escludente, perché è un privilegio che solo pochi corpi rispetto a molti altri possono abitare. Inoltre nei cortei e nella manifestazioni si possono infilare facilmente agenti esterni, che con le loro azioni di disturbo determinano e giustificano una specifica narrazione sui media.
C’è anche un altro aspetto che non viene preso in considerazione: la piazza può essere performativa quanto la presenza online. La partecipazione nelle piazze occupa uno spazio fisico maggiore all’apparenza, ma se questa partecipazione ha lo scopo di produrre selfie e momenti di incontro e gioco solo durante le manifestazioni mainstream come Pride e 8 Marzo, non si può davvero parlare di “attivismo”, ma di moda.
L’attivismo digitale è invece considerato più accessibile, perché utile a eliminare le distanze tra le periferie e i luoghi di aggregazione. L’attivismo digitale infatti permette di fare rete e allo stesso tempo di “chiamare alle armi” più persone. Vive però alcuni limiti importanti, come la deviazione verso un’azione individuale o performativa, ma anche il rischio di una maggiore esposizione personale a fenomeni di bullismo digitale.
Oltre i rischi: la necessità dell’attivismo digitale
Le piazze non sono per tutti. Una piazza può essere abilista, perché non accessibile a disabilità fisiche o a persone neurodivergenti. Una piazza può essere classista, perché difficilmente raggiungibile da chi viene dalla periferia o perché durante un giorno lavorativo. Le piazze fisiche, quando non è possibile parteciparvi, generano quindi un senso di colpa e disagio.
È in questi momenti che l’attivismo digitale appare non come alternativa, ma come una diversa finestra dalla quale affacciarsi. Superate le contraddizioni dell’attivismo digitale, questo permette una più ampia partecipazione.
L’uso dei social è inevitabile, perché così come il nostro corpo occupa uno spazio nella realtà, ne occupa uno anche in rete. La differenza sta nella modalità, se con consapevolezza o meno. È tempo di sperimentare, di non relegare l’attivismo digitale a pratiche individualistiche e invece usarlo per resistere anche in quegli spazi privati e sottomessi a fredde logiche di mercato. L’attivismo è, dopotutto, una continua invasione di campo e occupazione degli spazi imprevisti.
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Articolo di Giorgia Bonamoneta