Torna alla regia di questo terzo capitolo della saga di Magic Mike Steven Soderbergh, che aveva lasciato le redini del secondo a Gregory Jacobs. Ritroviamo il tanto amato (oppure no) Channing Tatum nel film conclusivo della trilogia ispirata alla sua storia passata: infatti, il primo capitolo della saga, prende libera ispirazione dal vissuto di un Tatum diciannovenne che per pagarsi da vivere faceva lo spogliarellista.
Rincontriamo quindi Mike Lane, che dopo gli eventi del secondo film e il fallimento della falegnameria che aveva aperto causa covid, si ritrova a fare il barman per ricchi annoiati che non sanno come spendere i loro soldi. Qui avviene l’incontro con Maxandra Mendosa (interpretata da Salma Hayek), che lo porterà con sé a Londra dove gli commissionerà un grande ultimo spettacolo nel teatro di sua proprietà. Il nostro Mike dovrà mettere insieme una squadra di ballerini per portare in scena il suo ultimo ballo, mentre nasce una storia d’amore all’orizzonte tra i due.
Magic Mike: Una muscolarità prorompente
Il film si proponeva, nella sua introduzione, come un pretesto per parlare di marginalità, di riscatto e differenze sociali sanabili attraverso la danza, un po’ sulla falsa riga del primo. Pur sempre nelle sue limitazioni. In questo terzo capitolo, invece, questi discorsi vengono accantonati in favore di una spettacolarità che supera gli altri due capitoli per dare una conclusione con il botto alla saga. Lo sviluppo dei personaggi e dei loro rapporti è meno marcato, soprattutto rispetto al primo film, e l’intero film è il pretesto per poter mettere in scena un pomposo spettacolo di quasi due ore che fa della sua forza l’attrazione e lo spettacolo. Tatum rimane fantastico nella sua muscolarità molto vicina a quella del cinema anni Ottanta (canottiere bianche e jeans a iosa). Risulta quindi un prodotto fatto di grandi canzoni e grande spettacolo. Per certi tratti sembra di rivedere quelle coreografie della saga di Step Up che proprio Tatum ha iniziato. Una grande messa in scena che mette però da parte uno sviluppo più profondo della sceneggiatura e dei personaggi.
Questa volta la mascolinità fa da padrone per tutto il film, in particolar modo nella parte finale di quasi quaranta minuti in cui vediamo lo spettacolo per intero. I suoi interpreti non hanno di certo lo spessore dei personaggi che abbiamo amato nei primi due capitoli. Ma la difficoltà nel sostituirli era alta. I personaggi leggermente più caratterizzati risultano i due protagonisti: Mike, che ha dalla sua l’averlo già conosciuto attraverso gli altri due film, e il personaggio di Salma Hayek, seppur figlia di uno stereotipo duro a morire di donna ricca perché ricco l’ex marito.
Nessuna pretesa
Ovviamente, le pretese per la saga di Magic Mike non possono essere alte, e il suo intento produttivo è raggiunto sicuramente. Intrattiene, lo fa bene e mette in scena grandi coreografie in un tripudio di corpi che si intrecciano. Il personaggio che rimane più impresso dell’intero film è probabilmente il maggiordomo Kevin interpretato da Ayub Khan-Din grazie alla sua verve ironica e scorbutica. Il film riesce nel suo intento di far passare due ore, ma non ci si può aspettare nulla in più.
Soderbergh adempie indubbiamente al suo lavoro registico. Sa come muoversi intorno a Tatum quando balla, come farlo rendere al meglio a schermo quando è provocante e sa come mettere in scena lo spettacolo finale per coinvolgerci al meglio. Il regista americano usa tutti quelli che sono gli stilemi che abbiamo imparato ad apprezzare nella sua carriera: dalle luci naturali molto spesso presenti, le lunghe carrellate a seguire e quelle ad incontrare i personaggi, le inquadrature con un piano decentrato che destabilizzano. È il solito vecchio Soderbergh, insomma. Per concludere, risulta quindi un peccato che un film così attrazionale, così spettacolare e figlio di un regista maniacale non sia stato supportato da una scrittura quanto mai non all’altezza.
Alessandro Libianchi
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