Pietro Castellitto è un regista, si vede. Anzi, è un vero e proprio autore che, a soli 32 anni, vanta una poetica evidente e una mano registica quanto mai decisa. Con Enea, il suo secondo lavoro dietro la macchina da presa, dimostra ancora di più quanto la sua idea artistica sia chiara. Già con I predatori, sua opera prima, aveva mostrato del talento attraverso un racconto inusuale sulle conseguenze delle più piccole azioni, attraverso le vite di tre famiglie romane. E in questo secondo lavoro concentra i suoi sforzi e il suo sguardo sulla realtà romana borghese, sulla Roma bene, sui simboli e le allegorie che questa fetta di mondo della capitale porta con sé. Parlando si delle sue contraddizioni e delle sue ipocrisie, ma anche del suo romanticismo e del suo fascino che, in parte, esercita su tutti. E lo fa attraverso una produzione che arriva da The Apartment e sotto stretto consiglio di Luca Guadagnino, come rivelato dallo stesso produttore Lorenzo Mieli. Lo fa attraverso una messa in scena mastodontica e seminale, dialoghi che ancora risuonano in testa ma una narrazione che poco affonda.
Enea: Valentino e Roma
Enea è un giovane rampollo di una famiglia alto borghese. Figlio di uno psichiatra (interpretato dal padre Sergio) e una giornalista (Chiara Noschese), è il figlio grande di due (Cesare Castellitto interpreta il fratello minore). E, proprio come detto dallo stesso Castellitto parlando di sé stesso, Enea è uno che “Quando si è trattato di prendere tempo per decidere cosa fare ha avuto la fortuna di non dover imbracciare una bicicletta e consegnare cibo agli sconosciuti”. Passa le sue giornate, tra una festa in discoteca e un’altra, con il suo amico di sempre Valentino (Giorgio Quarzo Guarascio, alla sua prima esperienza di set). Il rapporto tra i due è una forma distorta d’amore. Un amore complice tra due amici ma che sfiora il platonico, cambiando sempre forma. I due sono amici di Gabriel, losco proprietario delle migliori discoteche di Roma (un meraviglioso, sorprendente e irriconoscibile Matteo Branciamore) che li porterà ad entrare in un giro di droga più grande di loro attraverso la figura di Giordano (Adamo Dionisi). Sullo sfondo di una storia di droga si staglia tutta quella superficialità di una Roma lontana dagli sguardi truci di tanti autori che hanno provato a raccontarne la parte più logora. Così come lo stesso Castellitto, con il suo primo film. La sensazione è quella di una pellicola che gioca costantemente con il simbolismo, perché la stessa Roma è una città fatta di simboli. Dai più semplici auricolari con cui Enea va sempre in giro fino al bacio, elemento che non vediamo mai a schermo, elemento che ci viene sempre recluso. Un’intimità che possiamo assaporare solo con il pensiero.
Crescere e resistere
La sensazione è che Enea sia un film sulla volontà di sentirsi grandi anche quando si è minuscoli: Enea e Valentino si sentono padroni del mondo nelle loro feste mastodontiche, senza rendersi conto di essere soli, essere piccoli. Eloquente il discorso che fa Valentino quando parla del vedere Roma dal suo aereo. Ma anche la volontà di allontanare la giovinezza e sentirsi grandi, tenendola però sempre stretta a sé. Anche se quella vecchiaia che lo stesso Enea critica a tavola con la famiglia (ormai scena già marchio di fabbrica di Castellitto) è l’unica che ci degna di un bacio. Come dice Giordano, è l’amore che rende vecchi. Un film tanto sull’amore e la gioventù, quando sulla capacità di resistere sempre, un giorno in più. Una poetica e un messaggio che Pietro Castellitto mette in campo attraverso una messa in scena incredibile, quasi un unicum nel nostro cinema. L’aria è quella delle grandi produzioni e della grande “forma mentis” registica dell’autore. Nessuno sguardo della macchina da presa è casuale e ogni sovrapposizione e movimento ha uno scopo. Si allontana dal grottesco del primo film, per ancorarsi bene a terra in un racconto della reale, in controtendenza con l’idea di una borghesia aleatoria, quasi mistica. La problematica più grande nasce nel momento in cui tutta la magnificenza registica è sostenuta da una base di scrittura poco solida. Da un intreccio che scava poco, che scalfisce solo la punta di un discorso ampissimo. Se c’è una prima parte che fa parlare i personaggi, li lascia respirare nei loro dialoghi e monologhi elucubranti, nella seconda corre, si allunga verso la fine di una narrazione altalenante. Un problema per qualsiasi altra pellicola ma meno evidente quando la grandezza autoriale e cinematografica è così potente come quella di uno dei migliori talenti della prossima generazione.
Alessandro Libianchi
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