Perchè i film palestinesi sono stati rimossi su Netflix? Le risposte del colosso non convincono, c’è aria di censura.

Da qualche tempo, i contenuti palestinesi di qualsiasi tipo sembrano avere vita breve sulle principali piattaforme occidentali, come dimostra la recente rimozione da Netflix di 19 film della collezione Palestinian Stories. La piattaforma ha spiegato la scelta come una scadenza di licenza, ma diverse associazioni, tra cui Freedom Forward, sostengono che ci sia dell’altro. In un contesto geopolitico sempre più teso, la controversia solleva questioni importanti sulla censura e sulla soppressione di voci palestinesi nel panorama culturale globale.

I film palestinesi che sono stati cancellati da Netflix

La collezione Palestinian Stories, lanciata su Netflix nel 2021, comprendeva 32 film concessi in licenza dalla casa di distribuzione mediorientale Front Row Filmed Entertainment. Tra i titoli spiccavano opere iconiche come Intervento divino di Elia Suleiman. Ma anche opere come Il sale di questo mare di Annemarie Jacir, e 3000 notti di Mai Masri. Questi film non sono semplici racconti; trattano tematiche cruciali per la memoria collettiva palestinese. Questi prodotti raccontano storie di resistenza, amore e lotta in un contesto di occupazione e sofferenza.

La cancellazione di questi titoli arriva in un momento di estrema sofferenza per il popolo palestinese. L’escalation di attacchi su Gaza ha già causato oltre 40.000 morti e migliaia di sfollati. Per molte associazioni palestinesi e di difesa dei diritti umani, rimuovere questi film significa anche soffocare ulteriormente le voci di un popolo che lotta per far conoscere la propria realtà al mondo.

Cosa ha risposto Netflix

In risposta alle accuse di censura, Netflix ha dichiarato che la rimozione della collezione è dovuta alla scadenza delle licenze di distribuzione, fissate per un periodo di tre anni. “Continuiamo a investire in contenuti globali per dare voce a diverse culture” ha affermato la piattaforma in un comunicato. Tuttavia, questa spiegazione non ha convinto gli attivisti, che vedono nella decisione una forma di censura indiretta.

La Council on American-Islamic Relations ha infatti pubblicamente chiesto a Netflix di ripristinare i film. Questa ed altre associazioni segnalano come questo tipo di contenuto sia particolarmente rilevante nell’attuale contesto di genocidio della popolazione palestinese. Infatti, molti spettatori e attivisti sui social media stanno considerando azioni di boicottaggio della piattaforma. Sembra che la scelta di Netflix sia un segnale di allineamento politico con interessi che favorirebbero la soppressione di voci palestinesi.

Odore di censura

Anche la Freedom Forward, organizzazione a difesa della libertà di espressione, ha esortato Netflix a ripristinare immediatamente i titoli rimossi. Anche secondo il direttore dell’associazione, Sunjeev Bery, la rimozione dei film si inserisce in un quadro più ampio di cancellazione sistematica della narrativa palestinese da parte dei media occidentali. Da decenni, i contenuti palestinesi faticano a trovare spazio nelle principali piattaforme e nei media mainstream. Se è vero che licenze e diritti di distribuzione influenzano la durata dei contenuti online, è anche vero che le piattaforme di streaming, nel tempo, hanno dimostrato di poter aggirare queste problematiche quando c’è la volontà di investire in una particolare produzione.

La questione della scadenza delle licenze non è infatti nuova per Netflix: in altri casi, la piattaforma ha rinnovato licenze per contenuti considerati “sensibili” o “essenziali” per i diritti umani e la memoria storica. La scelta di non fare lo stesso per la collezione Palestinian Stories è stata interpretata come una decisione politica mascherata da tecnicismo.

Dopo aver cancellato i film palestinesi Netflix si chiude in un sospetto silenzio

La mancanza di trasparenza di Netflix nel comunicare la rimozione della collezione ha aggravato le tensioni. Secondo alcuni osservatori, è possibile che la piattaforma abbia ricevuto pressioni politiche o che abbia optato per una linea neutrale rispetto a un tema controverso come quello palestinese-israeliano. La questione diventa quindi una battaglia tra il bisogno di sensibilizzazione e il calcolo commerciale.

Rimane il sospetto che alcune aziende preferiscano evitare il rischio di essere etichettate come “pro-palestinesi” per non compromettere rapporti economici in Medio Oriente e negli Stati Uniti, dove il dibattito sul conflitto israelo-palestinese è particolarmente acceso. Le major come Netflix, che operano in mercati globali, possono sentirsi vulnerabili rispetto a possibili ritorsioni o a perdite di abbonati se viste come schierate in questo complesso contesto. La vicenda accentua il dibattito sul ruolo che le piattaforme di streaming giocano nel rappresentare storie di minoranze o gruppi oppressi e nella scelta dei contenuti basata su criteri politici o commerciali. La scelta di non rinnovare le licenze di “Palestinian Stories”, secondo i critici, potrebbe riflettere una tendenza delle piattaforme occidentali a mantenere distacco rispetto a narrazioni politicamente controverse, specialmente in regioni ad alta tensione.

Maria Paola Pizzonia, Autore presso Metropolitan Magazine