Nasceva il 19 novembre 1925 il sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman, una delle menti più brillanti del Novecento. I suoi studi, negli anni di attività, si concentrarono dapprima sullo sviluppo della stratificazione sociale, in relazione al movimento dei lavoratori, per poi espandersi ad ambiti molto più ampi.
La sua produzione letteraria si fece più prolifica da quando si ritirò dalla cattedra di Leeds; in particolare, guadagnò stima e attenzione con un libro sulle connsessioni tra l’ideologia della modernità e l’Olocausto. Nell’ultima parte della sua carriera, si dedicò al passaggio dal modernismo al postmodernismo, da lui definiti, simbolicamente, società solida e società liquida.
Zygmunt Bauman: la società liquida del postmodernismo
Il suo saggio del 1999, Modernità liquida, ha fortemente contribuito alla definizione del postmodernismo, una nuova modalità di riflessione che, per Bauman, va a braccetto con l’economia capitalista e, dunque, volto alla soddisfazione di desideri non essenziali. L’autore scava nella quotidianità dell’uomo, individuando il fil rouge che collega un individuo ad un altro, fatto di abitudini comuni. Una chiave di lettura del consumismo dilagante nella società postmoderna riguarda il ruolo che esso svolge all’interno del processo di formazione e affermazione identitaria. Il fattore propulsivo che spinge ad acquistare e consumare tende al raggiungimento di un piacere effimero in grado di placare un’insicurezza intrinseca nell’essere umano.
L’uomo del ventunesimo secolo non si conosce, non si sente completo, e brancola nel buio. Le categorie di riferimento tradizionali sono crollate sotto il peso del progresso. La solidità dei pilastri sui quali la cultura moderna di posava è venuta meno, lasciando il posto ad una società liquida, spacciata per libertà. Ed è proprio questa libertà imposta a destabilizzare: non esistono più costrutti religiosi, sociali, culturali che definiscano l’umanità, e gli uomini e le donne del nuovo mondo non hanno più punti fermi ai quali appigliarsi.
Il consumismo come affermazione di sé
Proprio in questo stato di incertezza s’insinua meccanismo di consumo, che si propone come soluzione del problema. L’individuo crede dunque di affermarsi con l’aiuto del mercato. Si comprano vestiti che rispecchino i nostri gusti, acquistiamo pacchetti vacanze o di formazione che ci regalino esperienze a noi affini e, attraverso ciò che mostriamo, c’illudiamo di definire quello che siamo. Bauman definisce lo shopping come un “rituale” volto ad esorcizzare l’incertezza attraverso gli oggetti materiali. Si arriva, tuttavia, ad un inevitabile paradosso. Ci vengono offerti modelli precostituiti ai quali aderire, che si parli di abbigliamento o di altro, e il risultato è che si finisce per diventare tutti, tendenzialmente, simili.
L’originalità muore a favore dell’essere “alla moda”, conforme alle tendenze sociali che è bene rispettare e seguire, pena l’esclusione dal circolo dei “giusti”. Il consumo genera consumo, che va di pari passo con un bisogno non sedato. L’insoddisfazione umana non viene colmata, anzi. La frustrazione che deriva dalla sensazione di appartenere ad una massa indefinita, senza riuscire a brillare, porta quindi a comprare di più a spendere di più, nel disperato tentativo di emergere, tendendo costantemente verso un obiettivo irrealizzabile.
I “rifiuti umani” di Zygmunt Bauman
Ecco, dunque, come questo meccanismo tossico che si autoalimenta, finisce per produrre i cosiddetti “rifiuti umani”, ovvero le vittime del progresso economico. Si tratta di quella parte di popolazione “in esubero”, che non riesce ad eguagliare gli standard imposti dal postmodernismo e che, quindi, resta fuori dai processi di produzione e consumo della società liquida. «Un fantasma si aggira fra gli abitanti del mondo liquido-moderno e fra tutte le loro fatiche e creazioni. Il fantasma dell’esubero. La modernità liquida è una civiltà dell’eccesso, dell’esubero, dello scarto e dello smaltimento dei rifiuti» scrive Bauman.
Essere uomini del proprio tempo significa stare perennemente in movimento e scartare, appunto, i progetti non andati in porto o falliti. In un pianeta saturato dal consumo, i rifiuti sono l’altra faccia della globalizzazione. Poco importa se, a finire nel tritacarne sociale, sono esseri umani; la corsa della crescita economica non può arrestarsi, e le “vite di scarto” non sono che un ostacolo da eliminare. Pensiamo, ad esempio, ai popoli del Terzo Mondo, usati dal Primo come manodopera a basso costo, e come “discarica” delle grandi potenze. Le “vite di scarto” vengono sfruttate, abusate e spremute fino all’ultima goccia di utilità, per poi essere gettate via, in nome del progresso.
L’industria della paura
Il tema hobbesiano della paura è presente in tutta la storia della teoria politica, da Machiavelli ai giorni nostri, fulcro del potere del Leviatano e virtù del Principe, il solo in grado di convertirla in positivo. Per Bauman, è una condizione accentuatasi nel Novecento: «Noi europei del Ventesimo secolo ci troviamo sospesi tra un passato pieno di orrori e un futuro distante pieno di rischi». I timori, dunque, riguardano fatti già avvenuti, ma che potrebbero ripetersi (come i conflitti mondiali), ma anche avvenimenti futuri, incerti ma possibili. Il risultato è un presente spaventoso, che rende l’uomo solo e in balia del destino, a fronte di uno Stato che non è più in grado di proteggerlo e di offrirgli stabilità.
Senza un nucleo centrale organizzato e fermo, tutta la società è indefinita, liquida, plasmabile da mani non sempre mosse da buone intenzioni. Ecco spiegato, allora, l’avvento dei totalitarismi, sistemi negativi, ma che promettono sicurezza all’individuo. I gerarchi piantano il seme della paura nel popolo, per poi farsi avanti come salvatori, e vengono acclamati da chi è in cerca di un appiglio.
Questa insicurezza, paradossalmente, è diffusa soprattutto nei Paesi sviluppati. La dipendenza da protezioni “forti” e il timore di perderle spinge un certo tipo di società verso una dimensione di chiusura. Fenomeni come il terrorismo e la criminalità portano l’uomo postmoderno a trincerarsi, individuando, tuttavia, il responsabile sbagliato. Ci si concentra sul singolo malvivente senza comprendere la matrice del suo gesto. S’individua nell’altro, nel “diverso” il solo responsabile di una deriva sociale, quando essere marce sono le fondamenta dello Stato, che ci succhia linfa vitale e ci depersonalizza, riducendoci a ingranaggio di una catena di montaggio molto più articolata.
Siamo alla costante ricerca di un capro espiatorio da sacrificare sull’altare del progresso, senza renderci conto di essere liquidi, tenuti insieme solo dai fili manovrati dalle dita dei burattinai che ci muovono dall’alto.
Federica Checchia
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