Internet e i social media, soprattutto negli ultimi anni, detengono il potere di amplificare le voci di comunità marginalizzate. Instagram, TikTok, Facebook, Twitter, Youtube sono le nuove piazze dove si scende a fare attivismo tutti giorni e che permettono – anche se la censura respira dietro la nuca di tutti noi – a chiunque di avere un piccolo spazio dove parlare di tematiche personali o universali.
Questo potere, immenso se nelle giuste mani (ne abbiamo visto un assaggio con le vicende legate al Concertone del 1° maggio), può perdere il suo scopo positivo e diventare uno strumento di discriminazione.
Criticare l’attivismo altrui spesso è ignorare il proprio privilegio.
Se l’attivismo di un’altra persona diventa il nemico e la lotta per cui sta combattendo viene ridotta alle modalità di azione scelte dal singolo individuo, molto probabilmente il tanto citato concetto di intersezionalità e il senso dell’attivismo stesso vengono a mancare.
Attivismo intersezionale: una lotta comune
L’intersezionalità teorizza una geometria dell’oppressione:
[…] da un lato, c’è la persona privilegiata, spesso inconsapevole dei propri privilegi, e più o meno inconsapevolmente propensa a difenderli, anche con la violenza. Dall’altro, c’è la persona che conta meno, che viene discriminata, esclusa e che è più a rischio di subire violenza. Ogni asse di oppressione individua nel soggetto oppresso il protagonista di una lotta di rivendicazione specifica: la donna per l’oppressione di genere, il proletario per quella di classe, l’omosessuale per quella legata all’orientamento sessuale… (Femminismo intersezionale o perché questa lotta è anche tua – NONUNADIMENO)
In questa visione complessa della società ogni individuo è attraversato da più di un asse di oppressione, trovandosi così in un punto di intersezione. Da alcuni anni si parla infatti di attivismo intersezionale, ossia non riguardante una lotta distinta e isolata, ma una serie di lotte in più di un modo intersecate tra loro.
Questo non vuol dire che non ci si possa concentrare su un solo tema, tuttə abbiamo un argomento in cui siamo più espertə; semplicemente significa che bisogna riconoscere le strette connessioni tra le lotte e che andrebbero per questo combattute con la stessa urgenza, collaborazione e attenzione, senza creare allarmismi o esclusione.
Attivismo femminista: la deriva separatista
Guardiamo le dinamiche dell’attivismo femminista: è evidente come le discriminazioni delle comunità marginalizzate e i problemi legati all’ambiente abbiano un filo conduttore comune, e che quindi, nessun tema è più importante o separato dall’altro.
Ogni attivista si impegna ad agire come riesce e può, ma questo genere di impegno non è considerato da tuttə come adeguato. “Sei parte dei problema”, “Se non scendi in piazza non sei unə verə attivistə”, “E allora i bambini?!” e tante altre critiche che hanno come conseguenza la separazione della lotta comune contro il sistema patriarcale. Le critiche provengono da attivistə che non percepiscono quanto sia discriminante presumere le possibilità altrui basandosi su quanto mostrato sui social.
Ignorare le situazioni famigliari, economiche, di salute fisica/mentale e lo stato sociale di una persona va immancabilmente a ricadere in forme di classismo, abilismo ed esclusione. Colpevolizzare e credersi migliorə solo perché si ha il privilegio di scendere in piazza a manifestare, è davvero inutile e divisorio. Colpevolizzare e giudicare l’attivismo altrui non è fare di più o meglio, non è supportare, non è rispettare e ascoltare.
Sul filo del rasoio: l’equilibrio dell’intersezionalità
Non esiste un solo modo di fare attivismo o di essere attivista. Questo comportamento sposta il focus della lotta: dal nemico comune (aziende, brand, fenomeni e ‘ismi’ pericolosi) al singolo individuo. Il dito puntato, pronto a giudicare alla prima mancanza sminuisce chi contribuisce alla propria lotta. Non si è cattive persone — o meglio, pessimə attivistə— perché il proprio stato di salute non permette di usare assorbenti riciclabili o rinunciare a un farmaco salvavita testato su animali.
Siamo nel Ventunesimo secolo ed esistono infiniti modi di agire attivamente. Dovremmo iniziare a pensare alla complessità dei fenomeni che ci circondano, senza nuocere alle persone che non hanno determinati privilegi. Pensare anche alle altre realtà che ci circondano se si vuole parlare di attivismo intersezionale, invece di portare avanti un discorso sterile e divisivo.
Basterebbe non dare per scontato che tuttə abbiano le stesse possibilità economiche, siano abilə o sanə per poter essere lo stereotipo dell’attivista.
Se si ha un privilegio si dovrebbe sfruttarlo per aiutare coloro che non ne hanno o che non possono agire attivamente, tramite l’educazione, la divulgazione e l’attivismo. Senza separazioni, senza giudizi, per un vero e razionale riconoscimento del modello intersezionale.
Ciao! Il mio nome è Martina, anche se tutt* mi chiamano Marti sin da quando sono piccola, ho 23 anni e da un paio d’anni sono impegnata nel mio piccolo a fare attivismo sul mio blog Instagram Revolution social(e).
Sono una ragazza CHD, ossia nata con una malattia congenita cardiaca e queer (pansessuale).
La mia passione è aiutare le persone, motivo per cui ho iniziato a fare attivismo: alzare la voce, supportare e prendere per mano chiunque non abbia questa fortuna mi fa stare bene.
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Articolo di Giorgia Bonamoneta, in collaborazione con Martina Botta.