Beyoncé cavalca con “Cowboy Carter”: tra sperimentazione, contaminazione e rivendicazione

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Di Martina Capitani

E’ uscito: Cowboy Carter, il II ACT di Renaissance di Beyoncé è pronto a entrare con prepotenza nel mondo della musica. Si tratta di una seconda parte corposa in ogni suo aspetto: dal numero di tracce (27), alla struttura con cui le canzoni vengono presentate, fino ai temi e le solite “frecciatine” che Beyoncé questa volta decide di lanciare a chi ha deciso di appropriarsi di un genere che ha radici culturali e storiche poco conosciute. Tanti gli aspetti da analizzare, ma una cosa possiamo dirla già in partenza: Cowboy Carter è un altro esperimento riuscito della Queen B.

Cowboy Carter: il revenge album di Beyoncé

Partiamo dal principio: il geniale contrasto tra la copertina e il titolo dell’album. Il II ACT si presenta a livello visuale strettamente legato all’estetica di Renaissance che Beyoncé aveva presentato nella prima parte. In copertina troviamo la cantante a cavallo, acconciata come se fosse un avatar selezionato nella sua opzione cowboy.

A spiazzare è il titolo: non CowGIRL ma CowBoy, accompagnato inoltre dal cognome del matrimonio. Un titolo che sembra essere di sottomissione, ma che al contrario, si sposa perfettamente con l’intento generale dell’album di mostrare una profonda conoscenza del proprio valore e delle proprie radici. Se quest’album fosse un abito, probabilmente sarebbe il “Revenge Dress” di Lady Diana. Elegante, potente e consapevole, Beyoncé si presenta in tutta la sua gloria con lo stesso genere oggetto di critiche in passato.

E no, non parliamo semplicemente di musica “country”. La stessa cantante ha scritto sul suo profilo Instagram «Non è un album Country. Questo è un album di Beyoncé». Cowboy Carter, permette di far assaporare il gusto di quel country-soul coltivato nei locali del Texas e nelle vecchie radio di settore (basta sentire l’intermezzo “SMOKE HOUR – WILLIE NELSON), mescolato ad altri sottogeneri con l’obiettivo di arrivare a un’esplosione musicale. C’è il Blues delle voci “live” che emergono durante le canzoni, ci sono i vecchi strumenti, c’è una star internazionale che porta al mondo il suo passato canoro, culturale e biografico.

Cowboy Carter arriva completo, con la co-firma da parte degli anziani di Nashville e l’essenza pura di quella donna afroamericana texana che chiamiamo oggi Regina.

Ci sono voluti 5 anni per preparare questo album. È nato da un’esperienza che ho avuto anni fa, in cui non mi sono sentita ben accolta… ed era molto chiaro che non lo ero. Ma, a causa di quell’esperienza, ho fatto una ricerca più approfondita sulla storia della musica country e ho studiato il nostro ricco archivio musicale. È
bello vedere come la musica possa unire così tante persone in tutto il mondo, mentre amplifica le voci di alcune persone che hanno dedicato così tanto della loro vita all’educazione sulla nostra storia musicale.
Le critiche che ho affrontato quando mi sono approcciata per la prima volta a questo genere mi hanno costretta a superare i limiti che mi erano stati imposti. Act II è il risultato della sfida che mi sono
lanciata, e del tempo che ho dedicato a mescolare i generi per creare questo lavoro
” Beyoncé

Beyoncé e la sperimentazione

Beyoncé è ormai lontana dalle canzoni pop orecchiabili passate in radio. Sono anni che ha deciso di intraprendere la via della sperimentazione. Lemonade (2016) aveva presentato un nuovo intento dell’artista: quello di rischiare, per proporre qualcosa di nuovo, anche se probabilmente criticato. E possiamo dire con certezza che Cowboy Carter è la conferma che questo nuovo percorso di Beyoncé sta influenzando talmente la musica, da poter rendere la sperimentazione un marchio stilistico dell’artista più pop degli anni 2000.

Questo album è un esperimento: 27 tracce in cui tracce musicali, radiofoniche e dichiarazioni intime si intersecano tra loro creando un esperienza d’ascolto è quasi cinematografica. Gli intermezzi parlati e le interruzioni vocali durante le canzoni, ci riportano indietro di 100 anni nelle campagne americane.

Il Country è conosciuto per essere “musica da bianchi“. Tuttavia, il genere deriva da altri approcci musicali, ed è quasi limitante non considerarli affatto. Basti pensare al bluesgrass, una branca del country che prende le mosse dalla musica gospel, dai bluesman degli anni venti e dall’improvvisazione prevista dal jazz.

Quello che è stato dimenticato nella ricostruzione culturale del genere è l’aspetto della “contaminazione“. Fattore che invece diventa protagonista principale del nuovo album di Beyoncé, in cui il gusto old-time si mescola con sonorità attuali. D’altronde, la stessa Linda Martell (prima cantante country di colore) a dire all’interno dell’album: «I generi sono un concetto un po’ buffo, vero? In teoria, hanno una definizione semplice e facile da capire. Ma in pratica, beh, alcuni potrebbero sentirsi limitati» 

Ok, abbiamo parlato dell’estetica, del genere, delle radici culturali. Ora ci manca la parte importante: le canzoni. 27 tracce e 80 minuti di ascolto rendono difficile capire da dove partire per far emergere al meglio l’esperienza sonora che regala quest’album.

La contaminazione – le tracce di CowBoy Carter

Nel dubbio partiamo dall’inizio: American Requiem. La prima canzone parte proprio con una dichiarazione dell’intento dell’artista di rivendicare il suo diritto a cantare la musica country, in quanto parte della cultura black. Dal testo della canzone, ai growl potenti di Queen B, la prima traccia dell’album è per tutti i 5 minuti, un avvertimento per coloro che intendono tirare fuori le vecchie critiche.

Subito dopo, Blackbiird una revisitazione di Blackbird dei Beatles. La canzone non è scelta a caso. Paul McCartney ha scritto il pezzo nel 1968 dopo l’assassinio di Martin Luther King, ispirato da nove studenti neri, conosciuti come Little Rock Nine, che affrontarono di petto la discriminazione dopo essersi iscritti ad un liceo bianco in Arkansas, 1957. Anche se la canzone ha poco a che vedere con il country (per questo diciamo che questo album non è country), porta al centro della questione le tematiche razziali che Beyoncé percorre tramite una narrazione verticale e orizzontale.

Si passa poi a Jolene. Diciamolo, cosa c’è di più geniale di inserire in un album di rivendicazione, la canzone cantata dalla donna bianca più country della storia? Nella celebre canzone, ispirata alla giovane “sfasciafamiglie” Jolene, Beyoncé non poteva che inserire un altra citazione autobiografica: parliamo della tanto discussa Sorry del 2016. All’epoca la “Becky with the good hair”, intesa come amante del marito, era sulla bocca di tutti, ed oggi torna nell’intro della cover di Jolene, in cui la Parton dice che la hussy (sgualdrina) “with the good hair” le ricorda “una che conoscevo un tempo”, ovvero quella sfaciafamiglie del 1974.

Infine, non possiamo non parlare di Ya, Ya. Basta solo dire che questa canzone interseca “These Boots Are Made For Walkin‘” di Nancy Sinatra con “Good Vibrations” dei Beach Boy. Il tutto accompagnato da un sound che mescola bluesgrass, soul e vecchie sonorità della cantante, che non per caso, rimandano a canzoni come Daddy Lessons e Freedom.

Ogni canzone di quest’album colpisce l’ascoltatore. Tornando al discorso cinematografico, possiamo dire che Cowboy Carter è un costante processo di “Colpi di scena”.

Martina Capitani

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Ph: Cowboy Carter di Beyonce – Photo Credits Ufficio stampa Parole & Dintorni: Francesco Di Mento