Black Mirror è considerata la serie distopica per eccellenza, che sin dalla prima stagione indaga le conseguenze dell’uso della tecnologia. Il 15 giugno è uscita la nuova stagione dopo 4 anni dalla quinta, che ci aveva regalato solamente tre episodi. Ideata e prodotta da Charlie Brooker, Black Mirror costituisce una dura critica alla società contemporanea, e anche la sesta stagione riesce a suggestionare chi guarda e a spingere a pensare che, prima o poi, toccherà anche a noi sottoporci al “giorno del giudizio”. Spoiler alert: avvertiamo lettori e lettrici che si entrerà nei dettagli del primo episodio.
Black Mirror 6: Joan Is Awful, il primo episodio della nuova stagione
Joan è una donna con una vita nella media: un colore di capelli che la rende riconoscibile, un fidanzato amorevole, un lavoro, un ex che ritorna dal passato. Dopo una carrellata dei momenti salienti della sua giornata, Joan torna a casa e lei e il suo partner siedono sul divano e discutono su cosa guardare su Streamberry, un servizio di streaming che ci risulta molto, troppo familiare. Quest’ultima scena trasporta immediatamente spettatori e spettatrici al di là dello schermo, non è uno sfondamento della quarta parete: si ha la sensazione di guardare se stessi. E non è una visione gradevole.
L’episodio da subito provoca una sensazione di forte disagio interiore: è come guardarsi in uno specchio quando non siamo al nostro meglio. Ci restituisce un’immagine delle serate annoiate, alla ricerca di intrattenimento che ci distolga dalla vita vera: una spasmodica e accurata indagine di contenuti per trovare quello che più possa trasformarci nell’ultimo modello di zombie. Eppure, l’inquietudine non finisce qui.
Everybody Is Awful: la vita secondo l’IA in Black Mirror
Brooker, tocca vari temi in questo primo episodio di Black Mirror 6. Joan scopre che su Stramberry esiste una serie su di lei, che svela i suoi momenti più intimi e segreti, di conseguenza perde il lavoro e il fidanzato. Veniamo poi a conoscenza, insieme a Joan, che la serie altro non è che una creazione in CGI (Computer-generated imagery) generata grazie alla concessione di Joan stessa della sua immagine. E come avrebbe ceduto questi diritti?
La risposta è spiazzante: accettando Termini e Condizioni del servizio di streaming. Quante volte abbiamo accettato Terms e Conditions senza leggere una sola parola? Per gli avvocati non ci sono scappatoie: attraverso gli smartphone, una sorta di divinità tecnologica, il quamputer, acquisisce i dati e genera la serie, pubblicandola rapidamente. Un altro pugno nello stomaco: si affaccia la consapevolezza della dipendenza dal nostro smartphone, lo abbiamo accanto a noi anche mentre guardiamo la serie. Non solo, l’IA ha un modo tutto suo di interpretare la realtà: la romanza, la peggiora, le espressioni di Joan-Salma sono più dure e le parole più crudeli.
“Basta Facebook, menamose”: l’azione salvifica dell’autenticità
Non è la prima volta che Brooker contrappone all’apnea del virtuale l’ampio respiro della realtà. Ricordiamo come nell’episodio di Black Mirror “Nose Dive”, la protagonista finisce in una brutta situazione, e ne esce proprio perdendo totalmente il controllo e lasciando spazio alla propria umanità. In altre parole, finalmente agisce seguendo solo se stessa.
Salma Hayek e Joan decidono insieme di fare qualcosa: stufe entrambe di vedere infamata e abusata la propria immagine, distruggono il computer quantistico – che, attenzione, esiste davvero -, scoprendo, nell’atto, che loro stesse altro non sono che personaggi generati dall’IA. Il finale dell’episodio numero uno della sesta serie di Black Mirror è atipico: c’è redenzione per la protagonista, a differenza di quasi tutti gli episodi, eccetto “Hang The DJ” e pochi altri, la conclusione è positiva.
Il rischio dell’happy ending
Ma allo spettatore piace questa redenzione? Joan apre una caffetteria, frequenta una persona, ha trovato un equilibrio. Non solo, un altro segno che tutto è andato per il meglio è l’amicizia tra la vera Joan e la sua interprete nel “primo livello”, Annie Murphy: l’unione tra persone, il contatto, l’affetto sono elementi salvifici. La sensazione, però, è che non se lo meriti, perché la prima parte ci ha mostrato come Joan fosse “terribile”.
Il finale è permeato di un certo buonismo, oppure, riflettendo più a fondo: l’autore ha forse voluto deludere volutamente i fan della serie? Se ci pensiamo bene, ci saremmo aspettati dal Black Mirror altri esiti: Joan impazzisce continuando ad agire dominata dall’IA, o, in qualche modo, rimane bloccata in un universo fittizio, o, ancora, il quamputer non viene distrutto e le persone iscritte a Streamberry subiscono la medesima sorte di Joan, creando un mondo privo di privacy e spontaneità. Propenderei per questa riflessione sul finale, visto che negli episodi successivi Brooker non farà altro che indagare la meschinità del fruitore medio di contenuti.
Beatrice Martini
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