Blonde è l’ultima pellicola (si fa per dire visto che è un film per Netflix) di Andrew Dominik. Il titolo “Blonde” è come una sineddoche, una parte per il tutto, che rende riconoscibile la protagonista indiscussa del film: Marilyn Monroe. Blonde però non racconta Marilyn. È invece un film sul trauma, sull’aborto e sul senso di colpa.
Blonde è un film crudo, a tratti horror, che per utilizzare le parole di Marina Pierri è “cannibale”. Il film ha infatti divorato Marilyn Monroe, l’ha digerita e rilasciata sullo schermo in lacrime e disperata. Non c’è un’altra donna sullo schermo, non c’è Norma Jean, c’è solo Marilyn in tutta la sua finzione. Lo sguardo è quello patriarcale di Andrew Dominik che vede Marilyn come un prodotto/corpo creato per gli uomini. Le parole sono le sue.
*Attenzione, il testo contiene TW: violenza sessuale, aborto e suicidio
Blonde è il prototipo della pornografia del dolore
Di Blonde si salva pochissimo: l’interpretazione di Marilyn di Ana de Armas, anche se ostacolata da trucco e occhi da cerbiatto e alcune trovate registiche. La memoria di questo film, se dovesse superare l’indignazione iniziale, sarà dovuta allo studio teorico su come non raccontare il dolore. Perché Blonde è l’esempio perfetto di “pornografia del dolore“, di come abusare corpo e memoria di Marilyn feticizzando il dolore ed erotizzando la violenza.
Il film vuole essere una critica agli uomini, dice il regista, ma gli manca lo sguardo critico e alla fine è soltanto l’effigie di un corpo femminile che scatena pietà e compassione. La prova è che in molti casi chi ha visto il film si è sentitə costrettə a provare dei sentimenti tristi. Tanto che alla fine del film la morte di Marilyn arriva con sollievo.
Marilyn è il suo trauma. Il film racconto una donna distrutta dal rapporto con l’aborto e gli abusi subiti. Non c’è nulla della Marilyn reale. È stata scelta una donna, una bionda appunto, da torturare sullo schermo per creare una finta empatia femminile del tutto inconsistente.
Dominik e il male gaze: lo sguardo privilegiato dell’uomo su Marilyn
Questo film dal primo all’ultimo secondo subisce un’evidente manipolazione maschile. Non si vede quasi nulla oltre a Marilyn, il suo corpo, il suo seno o il suo fondoschiena. La fotocamera è incollata a lei in maniera soffocante. Se volessimo iper analizzare questa scelta potremmo anche dire che era in questo modo che Hollywood e gli uomini guardavano Marilyn. Che questa sensazione di soffocamento vuole essere una critica al vissuto dell’attrice. Dall’altra parte però è evidente come non ci sia mai un momento di liberazione, un momento femminile, con amiche o confidenti che permettano di apprendere il senso critico.
Blonde appare supponente e a tratti volgare. Sembra un film che vuole afferrare a tutti i costi un Oscar e lo sappiamo “il fine giustifica i mezzi”. Così violare Marilyn e il ricordo di Norma Jean è legittimato dalla definizione di film d’autore. La violenza non passa soltanto nella tecnica usata, in questa soffocante ricerca del corpo, lo è ancora di più quando gli abusi vengono vissuti senza mai colpevolizzare l’uomo. Nascosto da ombre e quinte di luce extradiegetiche, il regista decide di nascondere l’uomo e rimane fisso a guardare morbosamente Marilyn, il trucco che cola e la bocca aperta. È una scena erotica, che strizza l’occhio al pubblico maschile, di una violenza sessuale.
Blonde strumentalizza Marilyn per vendere l’aborto come un trauma
L’aspetto più grave del film è la violenza della narrazione sull’aborto. Considerando anche il contesto nel quale esce questo film, dopo il ribaltamento della sentenza Roe vs Wade, raccontare l’aborto come un fatto traumatico e traumatizzante, senza chiave critica, è un messaggio di una violenza quasi inspiegabile.
Marilyn è strumentalizzata, usata e abusata per narrare il senso di colpa dell’aborto. Il sottotesto del film è chiarissimo: l’aborto è omicidio. Ci sono frasi esplicite che lo dichiarano, come quando il padre di Marilyn attraverso una lettera fa sapere alla figlia che: “La morte dell’anima non nata può gravare dentro di noi più di ogni altro. Perché l’innocenza è immacolata“.
Non vi è mai una scala di dolore, Marilyn inizia finisce la sua vita nel dolore e ringrazia per questo. In una scena Marilyn ringrazia la madre violenta di averla messa al mondo, perché altrimenti non sarebbe diventata famosa. Non c’è evoluzione, non c’è analisi interiore. C’è solo un uso cinematografico dei cartelli di Pro Vita & Famiglia. È un insulto riassumere nel dialogo con il feto – un feto parlante con la voce di un bambino di sei anni – il momento di riflessione tra sé di Marilyn.
Blonde è un insulto da Oscar all’aborto felice
È impossibile essere gentili con questo film perché il film non è stato gentile né con Marilyn né con le tematiche trattate. Al regista non interessava la realtà dei fatti e si è barricato dietro la definizione di messinscena del romanzo. L’abuso dell’immagine di Marilyn Monroe e della persona Norma Jean mettono in scena un film piatto, lento e difficile da digerire, soprattutto alla luce dei nuovi attacchi all’IVG.
Blonde è solo immagine, pornografia del dolore da manuale. Impossibile non citare la frase del regista che definisce Marylin “una ragazza fatta per uomini” rispondendo al perché non ci siano altre donne a tenderle una mano. Dopotutto una vittima aiutata non può incarnare perfettamente il sacrificio. In questo percorso traumatico la presenza femminile sarebbe stata una presenza confortevole, la sorellanza avrebbe impedito il dolore o sarebbe stata una chiave di lettura critica degli eventi. Invece Marilyn è lasciata sola.
Dominik voleva raccontare il dolore di una donna, ma ha finito per raccontare la donna come dolore. Nella lunga descrizione del trauma (quasi tre ore di film) Blonde conferma solo cosa non è: un film su Marilyn Monroe.
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Articolo di Giorgia Bonamoneta.