George Jung ha 59 anni, un passato da adolescente presto disilluso dalla più convenzionale idea di american dream e un presente di detenzione al Federal Correction Institute di Fort Dix, New Jersey. Nel mezzo, una vita passata da Boston George, re del narcotraffico tra Sud America e USA: “Blow” è la sua storia.

George nasce nel 1942 e cresce a Weymouth, Massachussetts in una famiglia della classe media. Il padre è un gran lavoratore, la madre una donna fin troppo abituata agli agi che le fatiche del padre possono permetterle. Un equilibrio che va definitivamente in crisi quando il padre è costretto a dichiarare bancarotta. George ha 10 anni, e inizia a capire che qualcosa non funziona nel modella esistenziale che gli è stato venduto così bene.

“Blow”: il vero colore del sogno americano

Appena può si trasferisce con l’amico Tuna (Ethan Suplee) nella Los Angeles della “Summer of Love”, dove si rende presto conto di come il traffico di marijuana rappresenti un affare irrinunciabile. Con una manciata di amici riesce creare un perfetto e innovativo meccanismo di traffico che si rifornisce direttamente alla fonte messicana.  Arrestato dopo una soffiata della madre in seguito allo spostamento  di un enorme quantitativo di erba non andato a buon fine, George finisce dietro le sbarre.

Qui, l’incontro che cambierà per sempre la sua vita. Diego Delgado (Jordi Mollà) è un uomo del cartello di Medellin, e i soldi che si possono fare con la cocaina fanno impallidire le cifre garantite da George dalla marijuana. Il dado è ormai tratto.  George Jung diventerà “Boston George”, canale preferenziale dei narcos messicani per sommergere di polvere bianca gli interi USA: un decollo verticale ad inevitabile scadenza,  che lo porterà in altissimo e comporterà una ancora più dolorosa caduta.

“Blow”: la grande occasione di Ted Demme

Edward “Ted” Demme , morto d’infarto nel 2002 ad appena un anno di distanza dalla fine delle riprese di Blow, era il nipote del ben più noto e talentuoso Johnatan, il regista de “Il Silenzio degli innocenti” e “Philadelphia”. Formato nel circuito dei video musicali e di produzioni televisive, arriva alla grande occasione quando Nick Cassavetes e David McKenna decidono di adattare per il grande schermo il romanzo biografico di Bruce Porter “Blow: how a small town boy made $100 million with the Medellín cocaine cartel and lost it all”  incentrato sulla figura di George Jung.

Demme ha già bazzicato gli ambienti gangster movie con “Snitch” del 1998, una piccola produzione, trascurabile e presto dimenticata. Ma con “Blow” le prospettive sono tutt’altre: la biografia di un personaggio larger than life, una parabola umana che tocca le vette altissime e i più infami bassifondi dell’esistenza, un budget all’altezza, la possibilità di aggiungere un pezzo di puzzle proprio in un angolo ancora scoperto della geografia del crimine USA. E un attore come Johnny Depp al proprio servizio. L’appiattimento interpretativo che da lì a poco diventerà il segno distintivo di Depp in seguito al franchise de “I pirati dei Caraibi” (2003) è dietro l’angolo ma ancora non visibile, e il buon Johnny è un George Jung credibile e sfaccettato, tanto cool e magnetico nella sua fase up quanto doloroso e vulnerabile nei suoi frequenti down esistenziali.

“Blow”: il gangster movie non è un pranzo di gala

Il vero problema di “Blow” è che Ted Demme non è Martin Scorsese e gli sceneggiatori sono più legati ad una scrittura illustrativa e didascalica che a giocare tra le pieghe della realtà, le sue contraddizioni e il suo infinito numero di interpretazioni possibili. L’esistenza umana e criminale di George Jung, così pregna di eventi cardine rappresentativi di un’intera epoca, nelle poco più di due ore della pellicola diventa un susseguirsi di momenti enormi striminziti l’uno di fianco all’altro. Un un crescendo più formale che sostanziale a cui manca una vera drammaturgia a farne da spina dorsale.

Non a caso “Blow” funziona meglio nella prima parte, quando la narrazione degli eventi si prende più tempo per svilupparsi e distendersi, decisamente peggio quando il piatto diventa troppo ricco. La paternità mai onorata, l’amou fou per la narcos Mirtha (un’aristocratica e cannibalica Penelope Cruz), la mitologia narcos escobariana, la fondazione del mercato all’ingrosso di cocaina sul territorio USA. Troppa carne al fuoco perché uno qualsiasi degli ingredienti possa essere cucinato e servito la con dose di bagaglio drammaturgico e narrativo che meriterebbe. Diventa così un carrellata di eventi eccezionali che sa più di revival mitizzante e un po’ modaiolo che di tragica epopea umana e criminale. Perfetto per due ore di intrattenimento leggero ad alto tasso di epica senz’anima, decisamente meno per chi spera di trovarci un nuovo tassello mancante di quel puzzle di cui sopra.

Andrea Avvenengo

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